Dal 2 febbraio fino a fine aprile alcune delle mie foto saranno esposte insieme a quelle di altri giovani fotografi a Courmayeur (AO), nella mostra “metti un sogno in valigia”, narrazione di viaggi in montagna: nel Tibet in bicicletta, sull’Elbrus nel Caucaso russo, e sulle vette delle Ande peruviane.
Il 9 febbraio avrà luogo l’inaugurazione ufficiale della mostra.
Jan 30, 2007
Jan 28, 2007
Diari russi - Viaggio in Russia ottobre/novembre 2006
Siberia, che nome! In russo viene forse da sibir, nord, e gia' a sentirlo vengono brividi, compaiono avanti agli occhi immagini di sterminate distese ghiacciate spazzate dal vento, di clima inospitale che rende la gente coriacea ed introversa, di litri di vodka che scorrono per scaldare quel poco che permette di sopravvivere.
Ed in effetti questa incredibile immensita' di vuoto che si stende alle spalle della civilta', che la minaccia con la sua opprimente massa come una glaciale Mordor, difficile da afferrare con lo sguardo e col pensiero, corrisponde almeno in parte alla cartolina stereotipica che abbiamo generalmente in mente. Ma sotto il permafrost del clima si stende, come la colonna vertebrale sotto la pelle, l'anima stessa della Russia, la sua grandezza e forza, la sorgente dello spirito del paese che da solo copre un sesto delle terre emerse.
Lo spirito russo, intrecciato alla storia mai come qui, ha qui trovato la sua nuova frontiera, il proprio far west, la direzione principe di catalizzazione degli sporzi di un popolo.
Al contrario della colonizzazione delle nuove terre americane, la terra stessa ha qui difeso le genti autoctone, in quanto dominare queste terre significa solo costruire avamposti, rendere possibile la comunicazione, facilitare la vita dei coloni quel tanto da renderla possibile.
Ulan Ude e' la porta della Siberia dalle steppe mongole, ed in effetti appariene piu' a queste ultime che allo sterminato e glaciale nord: e' una bella, vivibile e monotona citta', adagiata lungo due dei numerosissimi fiumi che solcano la steppa, ed e' capitale della repubblica di buriazia, una popolazione mongola che tuttora lascia ai russi i bassi condomini e le case di legno decorate da merletti intagliati della capitale, per trovare rifugio nelle campagne, a contatto con quella terra che per le genti nomadi mongole e' insieme anima, ragion di vita e fonte essenziale di sostentamento.
La testa di Lenin piu' grande al mondo fa capolino, nera ed intirizzita nella brina mattutina, tra le bianche betulle, ormai rosse e dorate, che demarcano la prosecuzione di ulitza lenina attraverso la piazza centrale della citta': niente in fondo e' cambiato, almeno qui, periferia eterna di un impero che vive della linfa di questi posti ma dove non c'e' spazio per il campanilismo, perche' e' solo dal centro che si puo' reggere una struttura cosi' gigantesca e fragile.
Il nero della notte, nonostante ci si avvicini alla luna piena, viene rotto solo da cumuli di neve che il forte vento sbatte contro i finestrini dello scompartimento, dove per assurdo non si riesce a dormire con la coperta addosso. Sembra che il treno stia attraversando un'immensita' infernale mitologica, protetto dalla furia dei demoni di fuori solo finche' continua a procedere costante.
Le luci dell'alba, fioche, illuminano le basse case in legno che si stendono come un tappeto ai due lati del fiume, chiazzate di neve. Tra esse spuntano le guglie colorate a cipolla delle imponenti chiese ortodosse, a quest'ora come tetre fortezze, ancora non alleggerite dalle splendide e colorate decorazioni che le tapezzano. I vecchi tram sovietici ti trascinano attraverso la citta' al risveglio, attraverso strade in terra battuta e splendidi quartieri di case siberiane, con un fascino decadente dell'intonaco a colori pastello che non e' scrostato dall'incuria e dalla mancanza di manutenzione, ma dal ghiaccio e dalla neve, che lo frantumano, lo venano, lo sbiadiscono, donandogli il fascino della patina d'antico.
Attraverso i viali di Irkutsk passeggiano, incuranti del vento sottozero che spazza la citta', splendide ragazze russe dagli occhi color del riflesso del cielo invernale sul ghiaccio, dai lineamenti perfetti, dall'innata grazia ed eleganza. Con loro, dondolanti procedono le babushke, con il capo protetto da colorati foulard, e le robuste corporature accentuate ulteriormente dai pesanti giacconi invernali di pelliccia. Il fascino della Siberia e' questo: la glaciale pulizia della natura, la durezza che tempra i caratteri ed umanizza le relazioni, insegnando a capire l'essenzialita' e semplicita' delle cose, e la giovialita' della gente, che chiede solo un pretesto per affiorare, qualsiasi pretesto, per dimostrare che si, la vita qui puo' essere dura, ma quello che conta e', come ovunque, l'approccio che ciascuno ha ad essa.
Il Bajkal, con la sua stupefacente massa d'acqua, rappresenta uno dei pochi posti al mondo con ancora un ecosistema intatto, ulteriormente arricchito da una varieta' assolutamente unica di specie animali e vegetali, in particolare pesci.
L'anima russa e' fortemente legata alla natura, da quando i cosacchi ed i coloni iniziarono la conquista dell'inospitale estremo oriente nel nome dello zar, ed ancora prima considerando lo stile di vita quasi unicamente contadino della Russia europea. Questo legame con la propria terra, che e' diverso dalla cocienza ecologica occidentale, piu' radicato a fondo nel comportamento della gente, ma allo stesso tempo piu' idealistico e romantico, e quindi meno vincolante dal punto di vista dei fatti, porta i russi a migrare in massa verso le proprie dacie di campagna nei fine settimana, per poter vivere negli amati recessi delle foreste di betulle. E qui viene vissuto, in autunno, uno dei rituali piu' coinvolgenti, quasi religiosi: la ricerca dei gripky, i funghi, che tutti qui adorano. Questi ritorni alla natura, che e' quanto di piu' bello ci sia in questo immenso paese, si fanno particolarmente forti in un luogo come il Bajkal, cosi' incredibilmente bello nella sua algida compostezza, nel colore intenso delle sue acque, che permettono di vedere in trasparenza fino a diverse centinaia di metri; i russi sono orgogliosi di questa splendida perla, e non perdono occasione per descriverla affascinati ai turisti di passaggio, che siano stranieri o loro compatrioti. E non si porta' lasciare questo posto senza prima essersi sentito ripetere diverse volte che il lago ha la maggior quantita' d'acqua potabile al mondo, ben il 25% del totale nel pianeta, e che le bottiglie di Bajkala voda, l'acqua piu' popolare qui, sono riempite direttamente con acqua del lago pescata a 400 mt di profondita', senza necessitare di nessun processo di purificazione.
E' questo senso di essere tuttuno con la natura che accomuna piu' di tutto i russi di qualsiasi classe sociale e qualunque momento storico, dai contadini ai nobili decabristi esiliati in Siberia, ai militari cosacchi, alle minoranze etniche; cosi' in un certo senso, le antiche basi del sempre forte nazionalismo russo, ovvero la religione e l'amore per la propria terra, riescono nell'unire questo popolo, ovvero riuscendo dove lo stesso comunismo, seppur proponendoselo come obiettivo principe, ha fallito
Ieri sono andato al circo. Il circo russo, tradizione che si perde nella storia dei popoli slavi, rappresenta una delle arti piu' amate e raffinate del paese; insieme all'opera ed al balletto, e' parte di quel gruppo di arti centrate sul dinamismo del corpo e la perfezione dei movimenti, che uniti alla forte carica emotiva dei gesti, delle trame, delle musiche, raggiungono un pathos ed una raffinatezza incredibile. Gli acrobati ed i contorsionisti si esibiscono in numeri di grande difficolta' ed agilita' con un dinamismo ed una fluidita' che diventano tuttuno con gli sgargianti ed estremamente curati costumi e con le musiche, rigorosamente composte per assecondare e seguire il gesto atletico dell artista.
Mi sono ritrovato a seguire meravigliato queste evoluzioni, la bocca spalancata come il bambino di non piu' di 2 anni seduto di fianco a me: lo stesso bambino che all'inizio dello spettacolo, guardando stupefatto la piscina da dove a breve sarebbero sbucate le agili danzatrici che incoronavano l'artista centrale, dice alla nonna, come in tutto il mondo immancabile compagna dei bimbi al circo: "djadja, more!" (nonnina guarda, il mare!). E lei, con voce dolce, di chi forse il mare non ha mai avuto la possibilita' di vederlo dal vero, risponde "Da, more".
Krasnoyarsk, adagiata sulle placide acque dello Jenisey, si srotola lungo i suoi bei corsi centrali, adorni di palazzi ottocenteschi brillanti nei vividi colori usati nell'architettura siberiana, risplendente nei colori dell'autunno, e baciata da un tiepido sole invernale; invoglia a passeggiare senza meta tra le sue strade, accompagnato dalla musica classica diffusa dagli altoparlanti che ripetevano i bollettini e gli slogan del partito.
La Siberia, nonostante l'incombente ombra di un retroterra asiatico, progenitore di tutte le genti capaci di sconvolgere le civilta' europee e mediorientali, e' indiscutibilmente una terra europea, seppur geograficamente lontana dal cuore pulsante del continente, e nonostante non ne condivida le ingentilenti condizioni di vita.
Ma al contempo e' specificatamente russa, e' l'anima antica di questo paese, che ne trae enormi ricchezze ed autorita'.
L'aquila bifronte zarista, simbolo dell'ortodossia adottato come emblema del paese, con le ali fieramente alzate a simboleggiare l'invincibilita', passa qui in secondo piano nella definizione del rodina, l'identita' nazionale tipicamente russa, legata come solo qui puo' essere indissolubilmente alla propria terra madre, progenitrice, origine dell'orgoglio e delle difficolta' della dura vita quotidiana.
E' questa intraducibile rodina che tutti i governi autocratici hanno sempre voluto far propria, identificando via via l'impero o il partito con questa atavica sorgente di nazionalismo ed identita' nazionale, che rende i russi invariabilmente fieri di essere tali e convinti della purezza della propria terra e cultura.
Qui, tra le infinite distese di neve e betulle, tra i placidi ed ampi corsi d'acqua che allagano la pianura, e' il bianco leone siberiano ad esseere simbolico portatoredel rodina della gente: troppo lontana dai palazzi imperiali, che spesso non si sono curati degli abitanti di queste terre, ma le hanno colonizzate con la crudezza della coercizione o attraverso l'estremo idealismo.
Il leone, che ha in se' la fierezza, caparbieta', onesta' morale e determinazione, e' una specificazione dell'anima russa adattata alla realta' locale di duro lavoro e dura vita: fluttuante tra un'innata propensione alla liberta' ed autodeterminazione, riemersa dopo il crollo dell'impero sovietico in risposta agli scarsi benefici che queste terre ricevono in cambio delle proprie risorse, e tra l'indiscussa e sentita adesione all'identita' russa, collante di tutte le genti slave ad est di Minsk.
La lingua russa conserva strutture indoeuropee presenti negli idiomi antichi del continente, dal latino al greco all'aramaico e le lingue norrene, che le donano una capacita' espressiva ed un'accuratezza sacrificate dalle lingue moderne continentali lungo un percorso che le ha portate verso una continua semplificazione ed efficacia comunicativa.
Cosi' come in tedesco, il russo esprime con singole parole concetti complessi, con forte connotazione filosofica, spesso difficilmente traducibili; ma, al contrario della lingua di Goethe, si esprime in parole singole, non unendo diversi concetti per formare parole composte.
Piu' di ogni altra lingua, e' essenziale per capire la mentalita' di cui e' fortemente impregnata, ed e' una chiave indispensabile per capire la gente ed i luoghi attraversati.
Il prastor e' un'altra di queste esplicitazioni del pensiero russo, e come il rodina e' difficilmente traducibile: rappresenta la sensazione composta di libetra' totale e spaesamento che si prova ad essere circondati da immensi spazi selvaggi, da una terra infinita e spesso con pochi o nessun punto di riferimento; un dizionario lo tradurrebbe con "spaziosita'", ma mancherebbe di cogliere il fondamentale rapporto di proporzioni tra l'uomo e la terra, ed il legame di sangue che li lega
Gli stolv sono rocce antiche, modellate dai ghiacci e dall'acqua in sinuose forme di arrotondati pinnacoli, che svettano tra la fitta foresta che avvolge Krasnoyarsk. Mi inoltro nel parco di Stolvy con Slava, faccia tonda ed occhi chiari. L'ho incontrato sull autobus che dal centro arriva all'ingresso del parco, e, come qualunque russo, soddisfa subito la sua curiosita' nel vedere uno straniero iniziando gentilmente a chiacchierare; cosi', appena gli dico che sto dirigendomi verso la riserva a scattar foto, decide di accompagnarmi.
Sulla quarantina, con la classica corporatura robusta di muscoli passivi dei russi, oggi non lavora e stava andando a casa dei suoceri, ma l'occasione di conoscere uno straniero fa passare tutto in secondo piano. Ci incamminiamo lungo il sentiero che sale verso il centro del parco, inoltrandoci tra betulle e abeti che hanno gia' ricoperto il terreno innevato con le colorate foglie autunnali. Slava si interessa di foto, mi racconta della sua Zenith con teelobiettivo, e si inorgoglisce quando gli dico che uso anch'io una macchina come la sua.
Il suo russo e' piuttosto biascicato, e all'inizio fatico a capirlo, ma sorridendo continua a raccontarmi della sua famiglia; poi parliamo del clima siberiano, di come ora sia paragonabile all'inverno dalle nostre parti, e non senza orgoglio mi spiega di quanto sia splendida e pulita questa terra con la neve (alche' faccio notare che la neve in effetti c'e' gia', ma lui sottolinea che neve e' solo quella che arriva almeno alla vita).
Sprofondando con le scarpe nel terreno imbiancato, saliamo fino in vetta ad uno, poi due poi ancora altre rocce, ed ogni volta il panorama dell'immensita di intatta foresta, che si estende nei colori autunnali fin dove arriva lo sguardo come un tappeto tartaro sotto di noi, e' da mozzare il fiato.
Il suo viso si illumina ogni volta che incontriamo tracce di animali slvatici, e con la bonarieta' di un padre che porta il figlio a spasso continua a darmi consigli su dove il passaggio e' piu' stabile e meno ghiacciato: si muove con la sicurezza e l'agilita' di uno nato in questi posti, ma la natura siberiana e' tanto splendida quanto selvaggia, e qui come in montagna e' sempre la natura che comanda, e che puo' riservare pericolose trappole.
Cosi', la valle curva, il fiume si divide, gli alti alberi ci coprono la vista ed i punti di riferimento, il sentiero si perde nella neve.
Alla ricerca di una via d'uscita da questo labirinto di legno, seguiamo l'unica possibile via, il corso dell'acqua, che certamente si dirige verso lo Jenisey e la citta'.
La luce del sole pomeridiano fa capolino tra le nubi che ricoprono come un manto la foresta, incendiando le brillanti foglie dorate. La marcia procede, ora dopo ora, difficoltosa e stancante, lungo l'argine che si perde tra lastre di ghiaccio, cumuli di neve, selve di tronchi crollati sotto il peso dell'inverno ormai in arrivo.
Davanti a noi, lo spettro della sera, della gelida notte siberiana, e della claustrofobica ed infinita foresta, solcata a valle da rigagnoli che si incrociano ed ingrossano unendosi, sulla via per il grande fiume. E poi colline, innumerevoli e ricoperte di foresta, una dopo l'altra e sempre lontane, che confondono la via.
Nella mia mente si fa strada l'immagine di un fuoco, acceso nonostante la terra gelata, per combattere il freddo della notte: ma il mio accendino cinese si rompe, eliminando cosi' questa consolante prospettiva.
Poi sempre avanti, spinto dall'irrequietezza, dal timore di veder sparire la gia' fioca luce sopra gli alberi, dalla testarda volonta' di di prendere il treno che mi aspetta nel cuore della notte per portarmi un passo piu' avanti lungo la strada verso ovest.
Slava inizia a barcollare, provato piu' di me dalla fatica, e devo spingerlo con un misto di incoraggiamento e spietatezza lungo l'argine. Ogni tanto, sollievo morale ancora piu' che fisico, un sottile sentiero appare, per poi perdersi quando un altro fiume attraersa la via per gettarsi sotto il ghiaccio ed i tronchi nelle acque sempre piu' ingrossate.
E' al tramonto che raggiungiamo il climax della nostra avventura: l'ultima luce si perde tra i rami degli alti alberi, il sentiero si smarrisce per l'ennesima volta nella radura, e Slava si accascia tra gli arbusti, esausto, sordo al mio spronarlo: accende una sigaretta, poi mi chiede di portargli dell'acqua, che prendo sotto il ghiaccio che ricopre il fiume.
Dopo che il mio tentativo di rimetterlo in marcia sembra avere successo, vinto dalla durezza del cammino sul lungofiume, con i suoi arbusti e tronchi ad ostacolare l'avanzata, si perde nel buio, senza rispondere alla mia voce quando lo chiamo.
Ormai la mia mente, obnubilata dal freddo che sale dai piedi fradici, e' concentrata testardamente su quel biglietto che ho in tasca, e non mi lascia provare che il desiderio di sbucare finalmente fuori dalla foresta. E continuo, inciampando mille volte nella neve, cadendo esausto almeno in due occasioni, con la paura di ferirmi e quindi di non essere piu' in grado di proseguire.
Poi, come un miraggio, il sentiero riappare, appena marcato nell'erba fradicia di neve, e lo seguo, fino ad incontrare una istba (casa di legno nella foresta), poi una traccia di pneumatici, poi il cancello del parco, poi un villaggio con alcune finestre illuminate ma deserto, dove nessuno risponde al mio chiamare.
E ancora avanti, fino ad icontrare una ragazzina, che mi accompagna alla ricerca di un telefono per segnalare l'emergenza. Ma tilefon njet e' la risposta, d'altronde questo non e' altro che un piccolo villaggio di contadini, lontano da tutto, dove la vera durezza della Siberia si combatte solo riparandosi nella propria casa appena finisce il giorno.
Quindi verso la strada, a cercare un passaggio verso la civilta', e sopratutto con in testa Slava, lasciato indietro nella notte.
Il checkpoint della militzia, riscaldato dalla stufa elettrica, e ' la fine della paura. Il poiziotto, piu' giovane di me e due volte piu' grosso nel suo giubbotto antiproiettile, si fa spiegare la situazione con flemma poi, sempre gentile ed affabile, annota minuziosamente tutti i miei dati, compreso il numero del mio biglietto del treno, e quasi dimentica di trascrivere i dati di Slava: sembra chiaro che dovra' cavarsela da solo.
Poi, sempre con flemma, comunica via radio a un qualche comando le informazioni, soffermandosi sul fatto che si, parlo russo, che ho con me una macchina fotografica: informazioni e dati che iniziano il loro probabilmente lungo cammino burocratico, prima di raggiungere qualche scopo.
Poi ferma un taxi, mi ringrazia ed avvisa sul prezzo corretto da pagare per arrivare in centro, mi saluta con cortesia con una pacca sulla spalla.
Solo nel tragitto mi rendo conto degli oltre 40 km percorsi nella foresta, e delle 14 ore spese a cercare la via d'uscita dagli alberi.
Ormai e' tardi, il treno mi aspetta con la promessa di una notte di sonno profondo al caldo, allontanandomi da questa incredibile avventura di un autunno siberiano, che sfuma nei sogni della notte.
Non so ne' forse mai sapro' che ne e' stato di Slava, mio compagno di una passeggiata nel parco.
La tempesta di neve spazza i finestrini del treno, ed imbianca il mondo fatato di case di legno tra le betulle degli sperduti villaggi lungo la ferrovia. Tomsk, la raffinata capitale universitaria della Siberia, si avvicina, per scelta lontana dal tracciato principale della transiberiana, scelta che ne ha preservato la bella atmosfera ottocentesca, ma che ne ha anche decretato il declino economico fino al momento in cui l'Unione Sovietica ha nuovamente sentito il bisogno di ricostruirsi una classe intellettuale ed istruita.
Le vie della citta' sono percorse in continuazione da gruppi di giovani alla moda, e punteggiate da caffe', ristoranti e locali, piacevoli luoghi d'incontro e di rifugio dal freddo.
Dopo una cena a base di zuppa di cetrioli con panna acida e bistecca d'orso, e dopo essermi riparato dal freddo in un accogliente e frequentato caffe', mi avvio insieme a Daniel, amico inglese conosciuto sul treno, verso l'autobus che ci riportera' all'hotel. La grande e vuota piazza del parlamento e' spazzata dal vento gelido e sporcata di neve, e non si vede il cartello, normalmente appeso, che indica la fermata.
D'un tratto da una macchina nera con finestrini oscurati mi sento chiamare: mi avvicino, due ragazzi siedono dentro, entrambi in divisa mimetica e di grossa corporatura, uno biondo e tipicamente russo, l'altro probabilmente georgiano, dai capelli neri, occhi scuri e pelle abbronzata.
"Polizia", mi dicono "sali in macchina": fingo di non capire, glisventolo davanti una cartina del centro citta' ed in inglese chiedo dov'e' la fermata dell'autobus; spiazzati dal problema lingua, intimano di nuovo ad entrambi di salire in macchina, a gesti e parole singole.
Sono in arresto. "Stavi pisciando nel arco, questo e' parlament, president, yes?" No, cercavo la fermata dell autobus. "non c'e' autobus adesso, dakument. Dove andate?" In hotel, se possibile... "come?" ci hanno detto che c'e' un autobus diretto da qui, che viaggia tutta la notte. "aftobus njet. Taxi." Bene, allora prendiamo il taxi. Possiamo andare? "No. i soldi per il taxi li avete? si? allora perche' cercate l'aftobus? Avete bevuto? Narkotika?" no, no, solo una birra dopo cena.
La voce del georgiano si alza sempre di piu' ad ogni fallito tentativo di comunicare: parla solo e soltanto russo, ma almeno il suo collega una o due parole chiave in inglese le conosce. E io continuo a rifiutarmi di parlare una parola di russo.
Il nostro momentaneo arresto non si prolunga, come minacciano piu' volte i due, principalmente grazie alla mia insistenza a chiamare l'ambasciata per avere un interprete, unito al fatto che evidentemente l'unica reale causa del fermo e' la noia dei due per la notte di pattuglia.
Di colpo appaiono sorrisi sui loro volti, e si trasformano in bonari amicono, arrivando a proporre di andare a bere qualcosa insieme. "ma siete in servizio, non potete bere!". "Si che possiamo, siamo poliziotti russi!" "vabbe', ma noi siamo vostri ospiti, quindi pagate voi, giusto?" "ehmm, giusto."
E cosi' finiamo la serata in un locale di videopoker quantomeno non impeccabile, a bere caffe' e cocacola (entrambi siamo diventati improvvisamente astemi) pagati dai due, prima di salire ancora increduli sul taxi che ci riconduce in albergo.
Tyumen, o meglio Gazpromland, e' il capoluogo della regione piu' ricca di petrolio dell'intera federazione, sede di numerosissime filiali del gigante dell'energia russo, la Gazprom appunto, che per intenderci e' quella che l'inverno scorso ci stava per lasciare senza gas.
La citta' conserva, in centro, un certo charme, anch'essa con edifici ottocenteschi ed architettura lignea tradizionale siberiana. Nel parco centrale, maggiore attrazione della citta' insieme alla cattedrale dalle cupole a cipolla dorate, sta un grosso parco divertimenti, con le attrazioni costruite in un bizzarro miscuglio di realismo sovietico, design orientale ed art nouveau.
Da qui vado alla vicina Tobolsk, provincialissima quantomeravigliosa perla siberiana, con il piu' bel cremlino al di la' degli Urali, e la citta' vecchia che si adagia ai suoi piedi, in un'ampia valle coperta di foresta sullo scosceso e pittoresco argine del fiume Irtysh.
Tobolsk e' l'immagine della mancanza di alternative di questa regione allo sviluppo industriale, insieme dannazione ed unica risorsa per la Siberia.
Un tempo centrale e benestante stazione di posta sulla strada verso est, Tobolsk rinuncio' volontariamente alla transiberiana, temendone sconvolgimenti della pace e dell'ambiente provocati dal rumore e dall'inquinamento dei treni.
Al contrario di Tomsk, che pote' mantenere parte della propria importanza grazie alla presenza dell'universita', per Tobolsk la scelta ha significato l'isolamento e il declino, che forse nemmeno il turismo, seppur in crescita, potra' arrestare.
La citta' ora langue sonnolenta, con strade spesso non asfaltate, senza un vero centro ne' luoghi adatti a creare aggregazione e vita sociale.
Ci sono molti miti da sfatare a proposito di un viaggio in transiberiana.
Innanzitutto, contrariamente a quanto molti pensano, questa e' una linea ferroviaria, sulla quale corrono treni da e per ciascuna delle grandi citta', e quindi non esiste il "treno transiberiano".
Cio' che piu' ci si avvicina e' il n. 1/2 "ROSSIJA" da Mosca a Vladivostok, con i vagoni decorati nei colori della bandiera russa, il piu' veloce dei treni sulla linea, che impiega quattro giorni e mezzo dalla moscova al pacifico.
Il viaggio in transiberiana va fatto in plaskartny, la terza classe. questa, affatto scomoda, e' composta da vagoni senza scompartimenti chiusi, ma con dieci gruppi di sei letti disposti a quadrato attorno a due tavolini, attraversati dal corridoio centrale.
Di giorno i tre letti inferiori diventano sedili, e sopra o sotto ciascun letto vi e' lo spazio per (parecchi) bagagli di ciascun passeggero.
Traghettatore e autorita' indiscussa del vagone e' la povodnitza (conduttrice), quasi sempre donna, piuttosto avanti con gli anni, invariabilmente torva almeno all'inizio del viaggio, e spesso ornata da acconciature assolutamente imbarazzanti.
E' a lei che ci si rivolge per le lenzuola, per qualsiasi genere di sostentamento si desideri (ma la capacita' imprenditoriale, e quindi la gamma di scelta, varia grandemente da povodnitza a povodnitza), e per qualunque altra necessita', seguendo la regola che l'umore di costei e' inversamente proporzionale alla quantita' di necessita' di ciascun passeggero. E' lei che si fa carico della pulizia dei bagni e della loro chiusura e riapertura all'arrivo in stazione (e anche qui la qualita' puo' subire drammatiche variazioni), ed e' sempre lei che regola a piacimento l'accesso al vagone di eventuali venditrici ambulanti di cibi, abbigliamento, stoffe, kalashnikov.
Altro luogo comune solo parzialmente vero e' che non si poss trovare un momento di pace: se e' vero che i russi sono una popolazione incredibilmente socievole, che certo non perde tempo a fare conoscenza, chiacchierare amabilmente e scambiarsi vivande e sigarette, e' anche vero che il viaggio medio tra due citta' vicine dura circa 12 ore, per cui c'e' tempo e possibilita' di leggere, dormire, ascoltare musica tanto quanto di mangiare, bere e chiacchierare con la gente.
Allo stesso tempo non e' vero che il treno, nemmeno in terza classe, sia un luogo pericoloso, infestato di trafficanti d'armi ed ubriachi.
Il problema dell'alcolismo e' certamente drammatico in Russia, dove le statistiche dicono che i maschi bevono 10/12 volte di piu' rispetto alla media mondiale, tanto da ridurre l'aspettativa di vita degli uomini a soli 58 anni contro i 74 delle donne: 58 anni e' in linea con le peggiori medie africane.
Ma il treno, cosi' come la maggior parte dei luoghi pubblici bar inclusi, non e' il luogo di questo dramma, che si consuma ben piu' tristemente tra le mura domestiche, con tutto cio' che ne consegue.
Certo si vedono birre e, piu' raramente, vodka sui tavolini, ma non mi e' ancora capitato di vedere un solo ubriaco sul treno, dove tra l'altro c'e' sempre la polizia a garantire la sicurezza.
Gli orari della ferrovia seguono il fuso di Mosca in tutto lo stato, obbligando il viaggiatore all'esercizio mentale di ricordare due diverse ore senza confonderle, compito che puo' creare problemi sopratutto se il proprio treno parte nel cuore della notte. Il viaggio in transiberiana srotola in continuazione splendidi paesaggi di foreste dal finestrino, ma ne' questo ne' buoni libri possono fare molto contro l'inevitabile noia, per la quale l'unica vera medicina e' la socializzazione con i compagni di viaggio: indispensabile bagaglio piu' di ogni altro qui sono la conoscenza almeno base del russo ed un carattere socievole.
L'assasinio della giornalista Anna Politkovskaya ha colpito duramente l'animo del russo medio.
Abituati alla fatica della vita di ogni giorno, i russi da sempre vivono il malgoverno come una calamita' naturale, una durezza da sopportare e alla quale non ci si puo' opporre. Ma, allo stesso tempo, il loro innato e candido amore di patria li porta a considerare la propria terra come inabile al male, seppur govenata da persone moralmente discutibili o autocratiche.
Cosi', al tempo della guerra fredda. il russo medio non capiva la ragione che portava il resto del mondo a temerli, cosi' come adesso la posizione russa in situazioni discutibili come la guerra cecena e' spesso supportata sulla base della convinzione dell'incapacita' della nazione di compiere azioni malvagie.
Ma l'omicidio della giornalista, cosi' come fu per la diffusione del dossier del kgb sull'operato di Stalin, scoperchia un vaso di Pandora, e lascia il russo sconvolto, tradito nella propria fiducia, perplesso.
"Non capisco cosa sta succedendo", mi dice Pavel, con gli occhi in basso e l'espressione seria. Provo a sondare due strade, dicendogli che e' improbabile che lo stesso Putin sia responsabile dell'ordine di eliminarla, ma al contempo sottolineo che il passato del presidente e di buona parte della attuale classe dirigente nelle fila del kgb ha probabilmente lasciato il segno sulla gamma di strumenti che questi considerano leciti in politica.
La sua risposta e' franca e diretta, e risuona della mentalita' che porto' a stravolgere la Russia per creare l'homo sovieticus: "la mia generazione non puo' piu' creare il buon governo per il paese, e probabilmente non cedera' di buon grado il potere che ha in mano. L'unica medicina dei mali russi e' un ricambio generazionale completo, siamo nelle mani dei nostri figli, sono loro la nuova russia".
Il tempo e la mentalita' di un intero popolo da ricostruire. Ecco le sfide del prossimo futuro di questo paese.
Gli Urali, che segnano il confine geografico tra Asia ed Europa, scorrono via morbidi, niente di piu' di dolci colline a questa latitudine. poi si inizia a scendere nella depressione del Volga, ampia conca scavata dal bacino del piu' grande fiume europeo, che verso il Caspio segnera' alcuni dei punti piu' bassi sotto il livello del mare nel pianeta.
Questa fu la terra dell'orda d'oro, il regno mongolo che mantenne per piu' a lungo il potere dopo il disfacimento dell'impero dei khan. I tatari, da noi erroneamente e sarcasticamente tradotti tartari dal nome dell'inferno greco, hanno giocato una parte fondamentale nella storia dell'intera regione dal Caspio al mar nero, fino al Baltico.
Fu Alexander Nevsky, verso la meta' del XIII secolo, il primo a provare a disinfrancare i principatii russi dal dominio tataro, ma si dovra' attendere l'avvento di una delle piu' affascinanti figure della storia russa per vedere soddisfatto questo desiderio indipendentista.
Dal 1530 alla fine del secolo sul trono di Russia, primo a fregiarsi del titolo di Tzar, e' Ivan il Terribile, in russo Grozny Ivan (i piu' attenti osservatori non mancheranno di cogliere l'omonimia con il nome della capitale cecena).
Eisenstein, negli anni venti, oltre alla celebre corazzata Potemkin annovera tra i propri capolavori un mastodontico film in due parti sulla vita di Ivan, in un incredibile (o noiosissimo, dipende dai gusti...) realismo socialista misto a sperimentazioni ardite di montaggio e fotografia eroica.
Il nostro Ivan, ben meritando il proprio appellativo, rase al suolo i khanati di Kazan ed Astrakhan, vere e proprie capitali tatare, edificando la cattedrale di San Basilio a Mosca ad imperitura memoria della propria grandezza. Il personaggio, con smodata teatralita', con un gusto ipicamente russo per le dimensioni sovrumane, una passione mai frenata per le esecuzioni pubbliche e per sontuose orge di cibo ed alcol che invariabilmente terminavano con l'incoscienza di tutti i commensali, ha i tratti comuni alla maggior parte di coloro che, dal governo del paese, hanno piu' drammaticamente modellato la storia nazionale: uno Stalin cinquecentesco insomma.
La Kazan di oggi, capitale dell'irrequieta repubblica del Tatarstan, si sviluppa lungo il largo Volga, che il bellissimo cremlino patrimonio dell'umanita' UNESCO domina dall'alto di una collina. All'interno delle mura si fronteggia la storia della Russia: da un lato una splendida moschea, enorme nei suoi minareti bianchi e cupole azzurre, simbolo della piu' alta latitudine raggiunta dalla diffusione dell'islam; dall'altro la cattedrale ortodossa dell'annunciazione, anch'essa sormontata da brillanti cupole azzurre e dorate.
In mezzo la torre Syuyumbike, che prende il nome dalla pricipessa tatara che qui si suicido' invece di accettare di sposare il buon Ivan dopo la sconfitta dei tatari. Il caro zar aveva una tale passione per il collezionismo di mogli che, al quarto matrimonio, si vide negare l'accesso a qualsiasi suolo sacro dall'irato partiarca, alche' decise di sposarsi ancora un paio di volte, e costruire una grata nel muro condiviso dal suo palazzo e dalla cattedrale nel cremlino di Mosca, per poter comunque assistere alla messa.
Costante degli autocrati russi: impongono la loro autorita' assoluta e lunatica su chiunque, ma mantengono un timor divino nel privato, unica autorita' che li possa spaventare, con la forza della superstizione; cosi' Stalin officio' di nascosto messa all'avvicinarsi delle armate di Hitler a Mosca, proprio nella cattedrale del cremlino che egli stesso aveva sconsacrato.
La Kazan moderna, tra le poche citta' russe in questa regione risparmiate dalla guerra, mantiene un'affascinante melange di atmosfere russe, asburgiche e centroasiatiche, sia nell'architetturasia nei volti della gente, ed il mercato centrale e' ricolmo di frutta secca e noci, panna acida e ayran, carne di agnello e teste di maiale, pane nero russo e lavash caucasico.
Kazan e' una citta' giovane e vitale, con un'universita' che ha educato alcune delle piu' importanti figure intellettuali del paese, da Lobacevski a Lenin, che ha qui per se' l'unica statua che lo ritrae giovane, in procinto di entrare in quell'edificio dal quale verra' espulso per attivita' rivoluzionarie.
E poi l'ultimo tratto prima della meta, la notte di treno mi fa risvegliare a Mosca, romantica e scorbutica, elegante e opprimente capitale della Russia.
Mosca e' opprimente, grigia, cupa, scorbutica; mosca e' anche bizzarra, sorprendente, barocca, attraente. Con le cupole delle chiese, dorate e splendenti nei colori brillanti che tanto piacciono all'architettura russa, e' la cartolina di un megalomane, la fantasia fiabesca di un sognatore unita agli incubi di un autocrate pazzo.
I moscoviti riflettono lunatici la loro citta', burocratici, rudi, autocommiseranti, e allo stesso tempo gioviali a vampate, bonari.
Mosca e' l'anima della Russia, ma non riesce a rappresentarla realmente, troppo incastonata tra i propri palazzi del potere e della cultura, troppo iltenta all'autocelebrazione: ai fatti, mosca e' tutto quello che la russia non e'.
La semplicita' e cordialita' della vita siberiana, la vitalita' travolgente dei popoli influenzati dall'oriente, od il raffinato edonismo dei pietroburghesi emergono solamente a sprazzi nel moscovita, e devono farsi strada attraverso una cortina di diffidenza costruita dal senso di vantata superiorita', che arriva al punto di richiedere la registrazione del soggiorno in capitale addirittura agli altri russi, che vengono multati da corrotti poliziotti, proprio come gli ingenui turisti.
Mosca e' insieme la delicata e sfarzosa arte della cattedrale di san basilio, e il grattacielo in cemento armato stalinista orlato da aguzzi pinnacoli che gli donano un tetro aspetto da castello delle streghe, entrambi dominanti il lento corso della moscova.
Pietroburgo e' tutto quello che Mosca non e'. Come la capitale e' chiusa, burocratica, opprimente, cosi' la porta russa sull'europa e' spaziosa, elegante, rilassante. a pietroburgo riappaiono i grazie ed i buongiorno, i sorrisi, le auto che si fermano mentre attraversi sulle strisce: si respira un'aria piu' libera, senza dover avere paura di opportuniste forze dell'ordine. Il vento scende dai mari artici increspando le acque del Ladoga, piu' grande lago d'Europa, e si incanala lungo i boulevard pietroburghesi, spazzando l'aria stantia e lo smog, e donando alla citta' un'atmosfera comune a stoccolma o copenhagen.
Pietroburgo apre la sua arte a tutti, cosi' come Mosca la custodisce gelosamente per se': qui gli studenti entrano gratis nei musei, ed i palazzi e le chiese si superano in magnificenza le une con le altre, a Mosca le perle piu' importanti sono racchiuse da cinte murarie e si sperdono nella grandezza dei viali cittadini e tra i palazzi del potere o del popolo.
Mosca ti cerca di schiacciare con la sua storia e cultura, Petroburgo te ne rende partecipe: nessuna sorpresa che la scelta cada invariabilmente sulla aristocratica regina del baltico.
Pietro il grande studia ad Amsterdam nel secolo d'oro della citta': impara l'olandese ed il tedesco, familiarizza con i mercanti della lega anseatica e del mare del nord, torna a casa e cerca il luogo piu' simile geograficaente alla capitale olandese: pero' quello che trova, quasi perfetto, alla foce della Neva, e' occupato dagli svedesi. Pietro li scaccia, e costruisce una delicata ed aristocratica citta' in bilico sui canali della foce del fiume, chiamandola Sankt Pitersburgh, con la pronuncia olandese e dal proprio santo patrono. La citta', sede di una delle piu' raffinate corti europee per tre secoli, e' la versione aristocratica della repubblicana e mercantile Amsterdam, ed in piu', come Stoccolma, e' bagnata dalla splendida ed avvolgente luce nordica, che arricchisce ciascuna delle poche grandi capitali che si trovano attorno ai 60 gradi nord di latitudine.
Capire la Russia, che e' insieme l'eredita' della Siberia, di Mosca, di Pietroburgo, e delle innumerevoli minoranze, richiede spopratutto la capacita' di capirne la cultura ed il pensiero: solo cosi' si puo' spiegare il culto della personalita' che i russi riservano a coloro che al momento incarnano di piu' il loro spirito di nazione. Pushkin, colui che ha sempre raccolto l'idolatria dei propri connazionali, e che adesso sembra l'unico in grado di prendere il posto ufficiale riservato nell'ultimo secolo a Lenin, sia nei monumenti sia come simbolo della mentalita' di tutto il popolo; entrare nella sua casa museo sui canali del centro di pietroburgo vuol dire accedere ad una processione religiosa, aggregarsi al gruppo silenzioso che segue la guida attraverso le sale della casa, spiegando con voce sicura i minimi dettagli del museo/mausoleo, addirittura con emozione al momento di mostrarne la corrispondenza od il calco in gesso del viso fatto al momento della morte del poeta; quasi ricorda Lenin nel suo mausoleo, ma forse questa adesso suonerebbe come una bestemmia all'orecchio russo.
L'animo del paese si puo' comprendere attraverso le parole che la sua cultura e' arrivata a creare: il russo non puo' fare a meno del sobornost, lo stare insieme, quello che gli permette di sentirsi difeso da qualunque minaccia ambientale o politica che sia. Nella sua giornata il suo pensiero esplode in parole, riversandosi su chiunque possa trovarsi nel proprio campo d'azione, per cercare confronto intellettuale: in russo si chiama umilenje, ed ha portato milioni di russi a costruire ferrovie o miniere indossando una camicia in Siberia. Ma d'altronde per i russi non e' la liberta' che conta, ma la volja, ovvero la liberta' incondizionata da leggi, assoluta, quella che porto' i decabristi a rimanere in Siberia dopo la concezione della grazia da parte dell'imperatore, in quanto solo la' potevano davvero sentirsi liberi. E questa rassegnazione alla sofferenza, all'oppresiione, alla durezza della vita si sintetizza nella toska, quell'insieme di noia, inerzia e malinconia che e' forse la caratteristica piu' evidente nei russi a vederli dall'esterno. Ma la loro vita e' scandita dal sudjba, il fato, caso e fortuna, per cui non sono portati a farsi schiacciare moralmente dalle avversita', ma le affrontano con estremo fatalismo, cosi' come con fatalismo evitano di lasciarsi travolgere dalla gioia: questo e' il terpenje, la rassegnazione.
Vi e' poi una parola che racchiude tutto questo, ed in piu' il rodina: dusha, che un dizionario tradurrebbe come anima, ma che in effetti ha un'accezione lontanissima da quella cristiana, tendendo ad indicare piu' nello specifico tutti i tratti denotativi della mentalita' del paese e dei suoi abitanti, la chiave insomma alla comprensione del pensiero russo.
Ed in effetti questa incredibile immensita' di vuoto che si stende alle spalle della civilta', che la minaccia con la sua opprimente massa come una glaciale Mordor, difficile da afferrare con lo sguardo e col pensiero, corrisponde almeno in parte alla cartolina stereotipica che abbiamo generalmente in mente. Ma sotto il permafrost del clima si stende, come la colonna vertebrale sotto la pelle, l'anima stessa della Russia, la sua grandezza e forza, la sorgente dello spirito del paese che da solo copre un sesto delle terre emerse.
Lo spirito russo, intrecciato alla storia mai come qui, ha qui trovato la sua nuova frontiera, il proprio far west, la direzione principe di catalizzazione degli sporzi di un popolo.
Al contrario della colonizzazione delle nuove terre americane, la terra stessa ha qui difeso le genti autoctone, in quanto dominare queste terre significa solo costruire avamposti, rendere possibile la comunicazione, facilitare la vita dei coloni quel tanto da renderla possibile.
Ulan Ude e' la porta della Siberia dalle steppe mongole, ed in effetti appariene piu' a queste ultime che allo sterminato e glaciale nord: e' una bella, vivibile e monotona citta', adagiata lungo due dei numerosissimi fiumi che solcano la steppa, ed e' capitale della repubblica di buriazia, una popolazione mongola che tuttora lascia ai russi i bassi condomini e le case di legno decorate da merletti intagliati della capitale, per trovare rifugio nelle campagne, a contatto con quella terra che per le genti nomadi mongole e' insieme anima, ragion di vita e fonte essenziale di sostentamento.
La testa di Lenin piu' grande al mondo fa capolino, nera ed intirizzita nella brina mattutina, tra le bianche betulle, ormai rosse e dorate, che demarcano la prosecuzione di ulitza lenina attraverso la piazza centrale della citta': niente in fondo e' cambiato, almeno qui, periferia eterna di un impero che vive della linfa di questi posti ma dove non c'e' spazio per il campanilismo, perche' e' solo dal centro che si puo' reggere una struttura cosi' gigantesca e fragile.
Il nero della notte, nonostante ci si avvicini alla luna piena, viene rotto solo da cumuli di neve che il forte vento sbatte contro i finestrini dello scompartimento, dove per assurdo non si riesce a dormire con la coperta addosso. Sembra che il treno stia attraversando un'immensita' infernale mitologica, protetto dalla furia dei demoni di fuori solo finche' continua a procedere costante.
Le luci dell'alba, fioche, illuminano le basse case in legno che si stendono come un tappeto ai due lati del fiume, chiazzate di neve. Tra esse spuntano le guglie colorate a cipolla delle imponenti chiese ortodosse, a quest'ora come tetre fortezze, ancora non alleggerite dalle splendide e colorate decorazioni che le tapezzano. I vecchi tram sovietici ti trascinano attraverso la citta' al risveglio, attraverso strade in terra battuta e splendidi quartieri di case siberiane, con un fascino decadente dell'intonaco a colori pastello che non e' scrostato dall'incuria e dalla mancanza di manutenzione, ma dal ghiaccio e dalla neve, che lo frantumano, lo venano, lo sbiadiscono, donandogli il fascino della patina d'antico.
Attraverso i viali di Irkutsk passeggiano, incuranti del vento sottozero che spazza la citta', splendide ragazze russe dagli occhi color del riflesso del cielo invernale sul ghiaccio, dai lineamenti perfetti, dall'innata grazia ed eleganza. Con loro, dondolanti procedono le babushke, con il capo protetto da colorati foulard, e le robuste corporature accentuate ulteriormente dai pesanti giacconi invernali di pelliccia. Il fascino della Siberia e' questo: la glaciale pulizia della natura, la durezza che tempra i caratteri ed umanizza le relazioni, insegnando a capire l'essenzialita' e semplicita' delle cose, e la giovialita' della gente, che chiede solo un pretesto per affiorare, qualsiasi pretesto, per dimostrare che si, la vita qui puo' essere dura, ma quello che conta e', come ovunque, l'approccio che ciascuno ha ad essa.
Il Bajkal, con la sua stupefacente massa d'acqua, rappresenta uno dei pochi posti al mondo con ancora un ecosistema intatto, ulteriormente arricchito da una varieta' assolutamente unica di specie animali e vegetali, in particolare pesci.
L'anima russa e' fortemente legata alla natura, da quando i cosacchi ed i coloni iniziarono la conquista dell'inospitale estremo oriente nel nome dello zar, ed ancora prima considerando lo stile di vita quasi unicamente contadino della Russia europea. Questo legame con la propria terra, che e' diverso dalla cocienza ecologica occidentale, piu' radicato a fondo nel comportamento della gente, ma allo stesso tempo piu' idealistico e romantico, e quindi meno vincolante dal punto di vista dei fatti, porta i russi a migrare in massa verso le proprie dacie di campagna nei fine settimana, per poter vivere negli amati recessi delle foreste di betulle. E qui viene vissuto, in autunno, uno dei rituali piu' coinvolgenti, quasi religiosi: la ricerca dei gripky, i funghi, che tutti qui adorano. Questi ritorni alla natura, che e' quanto di piu' bello ci sia in questo immenso paese, si fanno particolarmente forti in un luogo come il Bajkal, cosi' incredibilmente bello nella sua algida compostezza, nel colore intenso delle sue acque, che permettono di vedere in trasparenza fino a diverse centinaia di metri; i russi sono orgogliosi di questa splendida perla, e non perdono occasione per descriverla affascinati ai turisti di passaggio, che siano stranieri o loro compatrioti. E non si porta' lasciare questo posto senza prima essersi sentito ripetere diverse volte che il lago ha la maggior quantita' d'acqua potabile al mondo, ben il 25% del totale nel pianeta, e che le bottiglie di Bajkala voda, l'acqua piu' popolare qui, sono riempite direttamente con acqua del lago pescata a 400 mt di profondita', senza necessitare di nessun processo di purificazione.
E' questo senso di essere tuttuno con la natura che accomuna piu' di tutto i russi di qualsiasi classe sociale e qualunque momento storico, dai contadini ai nobili decabristi esiliati in Siberia, ai militari cosacchi, alle minoranze etniche; cosi' in un certo senso, le antiche basi del sempre forte nazionalismo russo, ovvero la religione e l'amore per la propria terra, riescono nell'unire questo popolo, ovvero riuscendo dove lo stesso comunismo, seppur proponendoselo come obiettivo principe, ha fallito
Ieri sono andato al circo. Il circo russo, tradizione che si perde nella storia dei popoli slavi, rappresenta una delle arti piu' amate e raffinate del paese; insieme all'opera ed al balletto, e' parte di quel gruppo di arti centrate sul dinamismo del corpo e la perfezione dei movimenti, che uniti alla forte carica emotiva dei gesti, delle trame, delle musiche, raggiungono un pathos ed una raffinatezza incredibile. Gli acrobati ed i contorsionisti si esibiscono in numeri di grande difficolta' ed agilita' con un dinamismo ed una fluidita' che diventano tuttuno con gli sgargianti ed estremamente curati costumi e con le musiche, rigorosamente composte per assecondare e seguire il gesto atletico dell artista.
Mi sono ritrovato a seguire meravigliato queste evoluzioni, la bocca spalancata come il bambino di non piu' di 2 anni seduto di fianco a me: lo stesso bambino che all'inizio dello spettacolo, guardando stupefatto la piscina da dove a breve sarebbero sbucate le agili danzatrici che incoronavano l'artista centrale, dice alla nonna, come in tutto il mondo immancabile compagna dei bimbi al circo: "djadja, more!" (nonnina guarda, il mare!). E lei, con voce dolce, di chi forse il mare non ha mai avuto la possibilita' di vederlo dal vero, risponde "Da, more".
Krasnoyarsk, adagiata sulle placide acque dello Jenisey, si srotola lungo i suoi bei corsi centrali, adorni di palazzi ottocenteschi brillanti nei vividi colori usati nell'architettura siberiana, risplendente nei colori dell'autunno, e baciata da un tiepido sole invernale; invoglia a passeggiare senza meta tra le sue strade, accompagnato dalla musica classica diffusa dagli altoparlanti che ripetevano i bollettini e gli slogan del partito.
La Siberia, nonostante l'incombente ombra di un retroterra asiatico, progenitore di tutte le genti capaci di sconvolgere le civilta' europee e mediorientali, e' indiscutibilmente una terra europea, seppur geograficamente lontana dal cuore pulsante del continente, e nonostante non ne condivida le ingentilenti condizioni di vita.
Ma al contempo e' specificatamente russa, e' l'anima antica di questo paese, che ne trae enormi ricchezze ed autorita'.
L'aquila bifronte zarista, simbolo dell'ortodossia adottato come emblema del paese, con le ali fieramente alzate a simboleggiare l'invincibilita', passa qui in secondo piano nella definizione del rodina, l'identita' nazionale tipicamente russa, legata come solo qui puo' essere indissolubilmente alla propria terra madre, progenitrice, origine dell'orgoglio e delle difficolta' della dura vita quotidiana.
E' questa intraducibile rodina che tutti i governi autocratici hanno sempre voluto far propria, identificando via via l'impero o il partito con questa atavica sorgente di nazionalismo ed identita' nazionale, che rende i russi invariabilmente fieri di essere tali e convinti della purezza della propria terra e cultura.
Qui, tra le infinite distese di neve e betulle, tra i placidi ed ampi corsi d'acqua che allagano la pianura, e' il bianco leone siberiano ad esseere simbolico portatoredel rodina della gente: troppo lontana dai palazzi imperiali, che spesso non si sono curati degli abitanti di queste terre, ma le hanno colonizzate con la crudezza della coercizione o attraverso l'estremo idealismo.
Il leone, che ha in se' la fierezza, caparbieta', onesta' morale e determinazione, e' una specificazione dell'anima russa adattata alla realta' locale di duro lavoro e dura vita: fluttuante tra un'innata propensione alla liberta' ed autodeterminazione, riemersa dopo il crollo dell'impero sovietico in risposta agli scarsi benefici che queste terre ricevono in cambio delle proprie risorse, e tra l'indiscussa e sentita adesione all'identita' russa, collante di tutte le genti slave ad est di Minsk.
La lingua russa conserva strutture indoeuropee presenti negli idiomi antichi del continente, dal latino al greco all'aramaico e le lingue norrene, che le donano una capacita' espressiva ed un'accuratezza sacrificate dalle lingue moderne continentali lungo un percorso che le ha portate verso una continua semplificazione ed efficacia comunicativa.
Cosi' come in tedesco, il russo esprime con singole parole concetti complessi, con forte connotazione filosofica, spesso difficilmente traducibili; ma, al contrario della lingua di Goethe, si esprime in parole singole, non unendo diversi concetti per formare parole composte.
Piu' di ogni altra lingua, e' essenziale per capire la mentalita' di cui e' fortemente impregnata, ed e' una chiave indispensabile per capire la gente ed i luoghi attraversati.
Il prastor e' un'altra di queste esplicitazioni del pensiero russo, e come il rodina e' difficilmente traducibile: rappresenta la sensazione composta di libetra' totale e spaesamento che si prova ad essere circondati da immensi spazi selvaggi, da una terra infinita e spesso con pochi o nessun punto di riferimento; un dizionario lo tradurrebbe con "spaziosita'", ma mancherebbe di cogliere il fondamentale rapporto di proporzioni tra l'uomo e la terra, ed il legame di sangue che li lega
Gli stolv sono rocce antiche, modellate dai ghiacci e dall'acqua in sinuose forme di arrotondati pinnacoli, che svettano tra la fitta foresta che avvolge Krasnoyarsk. Mi inoltro nel parco di Stolvy con Slava, faccia tonda ed occhi chiari. L'ho incontrato sull autobus che dal centro arriva all'ingresso del parco, e, come qualunque russo, soddisfa subito la sua curiosita' nel vedere uno straniero iniziando gentilmente a chiacchierare; cosi', appena gli dico che sto dirigendomi verso la riserva a scattar foto, decide di accompagnarmi.
Sulla quarantina, con la classica corporatura robusta di muscoli passivi dei russi, oggi non lavora e stava andando a casa dei suoceri, ma l'occasione di conoscere uno straniero fa passare tutto in secondo piano. Ci incamminiamo lungo il sentiero che sale verso il centro del parco, inoltrandoci tra betulle e abeti che hanno gia' ricoperto il terreno innevato con le colorate foglie autunnali. Slava si interessa di foto, mi racconta della sua Zenith con teelobiettivo, e si inorgoglisce quando gli dico che uso anch'io una macchina come la sua.
Il suo russo e' piuttosto biascicato, e all'inizio fatico a capirlo, ma sorridendo continua a raccontarmi della sua famiglia; poi parliamo del clima siberiano, di come ora sia paragonabile all'inverno dalle nostre parti, e non senza orgoglio mi spiega di quanto sia splendida e pulita questa terra con la neve (alche' faccio notare che la neve in effetti c'e' gia', ma lui sottolinea che neve e' solo quella che arriva almeno alla vita).
Sprofondando con le scarpe nel terreno imbiancato, saliamo fino in vetta ad uno, poi due poi ancora altre rocce, ed ogni volta il panorama dell'immensita di intatta foresta, che si estende nei colori autunnali fin dove arriva lo sguardo come un tappeto tartaro sotto di noi, e' da mozzare il fiato.
Il suo viso si illumina ogni volta che incontriamo tracce di animali slvatici, e con la bonarieta' di un padre che porta il figlio a spasso continua a darmi consigli su dove il passaggio e' piu' stabile e meno ghiacciato: si muove con la sicurezza e l'agilita' di uno nato in questi posti, ma la natura siberiana e' tanto splendida quanto selvaggia, e qui come in montagna e' sempre la natura che comanda, e che puo' riservare pericolose trappole.
Cosi', la valle curva, il fiume si divide, gli alti alberi ci coprono la vista ed i punti di riferimento, il sentiero si perde nella neve.
Alla ricerca di una via d'uscita da questo labirinto di legno, seguiamo l'unica possibile via, il corso dell'acqua, che certamente si dirige verso lo Jenisey e la citta'.
La luce del sole pomeridiano fa capolino tra le nubi che ricoprono come un manto la foresta, incendiando le brillanti foglie dorate. La marcia procede, ora dopo ora, difficoltosa e stancante, lungo l'argine che si perde tra lastre di ghiaccio, cumuli di neve, selve di tronchi crollati sotto il peso dell'inverno ormai in arrivo.
Davanti a noi, lo spettro della sera, della gelida notte siberiana, e della claustrofobica ed infinita foresta, solcata a valle da rigagnoli che si incrociano ed ingrossano unendosi, sulla via per il grande fiume. E poi colline, innumerevoli e ricoperte di foresta, una dopo l'altra e sempre lontane, che confondono la via.
Nella mia mente si fa strada l'immagine di un fuoco, acceso nonostante la terra gelata, per combattere il freddo della notte: ma il mio accendino cinese si rompe, eliminando cosi' questa consolante prospettiva.
Poi sempre avanti, spinto dall'irrequietezza, dal timore di veder sparire la gia' fioca luce sopra gli alberi, dalla testarda volonta' di di prendere il treno che mi aspetta nel cuore della notte per portarmi un passo piu' avanti lungo la strada verso ovest.
Slava inizia a barcollare, provato piu' di me dalla fatica, e devo spingerlo con un misto di incoraggiamento e spietatezza lungo l'argine. Ogni tanto, sollievo morale ancora piu' che fisico, un sottile sentiero appare, per poi perdersi quando un altro fiume attraersa la via per gettarsi sotto il ghiaccio ed i tronchi nelle acque sempre piu' ingrossate.
E' al tramonto che raggiungiamo il climax della nostra avventura: l'ultima luce si perde tra i rami degli alti alberi, il sentiero si smarrisce per l'ennesima volta nella radura, e Slava si accascia tra gli arbusti, esausto, sordo al mio spronarlo: accende una sigaretta, poi mi chiede di portargli dell'acqua, che prendo sotto il ghiaccio che ricopre il fiume.
Dopo che il mio tentativo di rimetterlo in marcia sembra avere successo, vinto dalla durezza del cammino sul lungofiume, con i suoi arbusti e tronchi ad ostacolare l'avanzata, si perde nel buio, senza rispondere alla mia voce quando lo chiamo.
Ormai la mia mente, obnubilata dal freddo che sale dai piedi fradici, e' concentrata testardamente su quel biglietto che ho in tasca, e non mi lascia provare che il desiderio di sbucare finalmente fuori dalla foresta. E continuo, inciampando mille volte nella neve, cadendo esausto almeno in due occasioni, con la paura di ferirmi e quindi di non essere piu' in grado di proseguire.
Poi, come un miraggio, il sentiero riappare, appena marcato nell'erba fradicia di neve, e lo seguo, fino ad incontrare una istba (casa di legno nella foresta), poi una traccia di pneumatici, poi il cancello del parco, poi un villaggio con alcune finestre illuminate ma deserto, dove nessuno risponde al mio chiamare.
E ancora avanti, fino ad icontrare una ragazzina, che mi accompagna alla ricerca di un telefono per segnalare l'emergenza. Ma tilefon njet e' la risposta, d'altronde questo non e' altro che un piccolo villaggio di contadini, lontano da tutto, dove la vera durezza della Siberia si combatte solo riparandosi nella propria casa appena finisce il giorno.
Quindi verso la strada, a cercare un passaggio verso la civilta', e sopratutto con in testa Slava, lasciato indietro nella notte.
Il checkpoint della militzia, riscaldato dalla stufa elettrica, e ' la fine della paura. Il poiziotto, piu' giovane di me e due volte piu' grosso nel suo giubbotto antiproiettile, si fa spiegare la situazione con flemma poi, sempre gentile ed affabile, annota minuziosamente tutti i miei dati, compreso il numero del mio biglietto del treno, e quasi dimentica di trascrivere i dati di Slava: sembra chiaro che dovra' cavarsela da solo.
Poi, sempre con flemma, comunica via radio a un qualche comando le informazioni, soffermandosi sul fatto che si, parlo russo, che ho con me una macchina fotografica: informazioni e dati che iniziano il loro probabilmente lungo cammino burocratico, prima di raggiungere qualche scopo.
Poi ferma un taxi, mi ringrazia ed avvisa sul prezzo corretto da pagare per arrivare in centro, mi saluta con cortesia con una pacca sulla spalla.
Solo nel tragitto mi rendo conto degli oltre 40 km percorsi nella foresta, e delle 14 ore spese a cercare la via d'uscita dagli alberi.
Ormai e' tardi, il treno mi aspetta con la promessa di una notte di sonno profondo al caldo, allontanandomi da questa incredibile avventura di un autunno siberiano, che sfuma nei sogni della notte.
Non so ne' forse mai sapro' che ne e' stato di Slava, mio compagno di una passeggiata nel parco.
La tempesta di neve spazza i finestrini del treno, ed imbianca il mondo fatato di case di legno tra le betulle degli sperduti villaggi lungo la ferrovia. Tomsk, la raffinata capitale universitaria della Siberia, si avvicina, per scelta lontana dal tracciato principale della transiberiana, scelta che ne ha preservato la bella atmosfera ottocentesca, ma che ne ha anche decretato il declino economico fino al momento in cui l'Unione Sovietica ha nuovamente sentito il bisogno di ricostruirsi una classe intellettuale ed istruita.
Le vie della citta' sono percorse in continuazione da gruppi di giovani alla moda, e punteggiate da caffe', ristoranti e locali, piacevoli luoghi d'incontro e di rifugio dal freddo.
Dopo una cena a base di zuppa di cetrioli con panna acida e bistecca d'orso, e dopo essermi riparato dal freddo in un accogliente e frequentato caffe', mi avvio insieme a Daniel, amico inglese conosciuto sul treno, verso l'autobus che ci riportera' all'hotel. La grande e vuota piazza del parlamento e' spazzata dal vento gelido e sporcata di neve, e non si vede il cartello, normalmente appeso, che indica la fermata.
D'un tratto da una macchina nera con finestrini oscurati mi sento chiamare: mi avvicino, due ragazzi siedono dentro, entrambi in divisa mimetica e di grossa corporatura, uno biondo e tipicamente russo, l'altro probabilmente georgiano, dai capelli neri, occhi scuri e pelle abbronzata.
"Polizia", mi dicono "sali in macchina": fingo di non capire, glisventolo davanti una cartina del centro citta' ed in inglese chiedo dov'e' la fermata dell'autobus; spiazzati dal problema lingua, intimano di nuovo ad entrambi di salire in macchina, a gesti e parole singole.
Sono in arresto. "Stavi pisciando nel arco, questo e' parlament, president, yes?" No, cercavo la fermata dell autobus. "non c'e' autobus adesso, dakument. Dove andate?" In hotel, se possibile... "come?" ci hanno detto che c'e' un autobus diretto da qui, che viaggia tutta la notte. "aftobus njet. Taxi." Bene, allora prendiamo il taxi. Possiamo andare? "No. i soldi per il taxi li avete? si? allora perche' cercate l'aftobus? Avete bevuto? Narkotika?" no, no, solo una birra dopo cena.
La voce del georgiano si alza sempre di piu' ad ogni fallito tentativo di comunicare: parla solo e soltanto russo, ma almeno il suo collega una o due parole chiave in inglese le conosce. E io continuo a rifiutarmi di parlare una parola di russo.
Il nostro momentaneo arresto non si prolunga, come minacciano piu' volte i due, principalmente grazie alla mia insistenza a chiamare l'ambasciata per avere un interprete, unito al fatto che evidentemente l'unica reale causa del fermo e' la noia dei due per la notte di pattuglia.
Di colpo appaiono sorrisi sui loro volti, e si trasformano in bonari amicono, arrivando a proporre di andare a bere qualcosa insieme. "ma siete in servizio, non potete bere!". "Si che possiamo, siamo poliziotti russi!" "vabbe', ma noi siamo vostri ospiti, quindi pagate voi, giusto?" "ehmm, giusto."
E cosi' finiamo la serata in un locale di videopoker quantomeno non impeccabile, a bere caffe' e cocacola (entrambi siamo diventati improvvisamente astemi) pagati dai due, prima di salire ancora increduli sul taxi che ci riconduce in albergo.
Tyumen, o meglio Gazpromland, e' il capoluogo della regione piu' ricca di petrolio dell'intera federazione, sede di numerosissime filiali del gigante dell'energia russo, la Gazprom appunto, che per intenderci e' quella che l'inverno scorso ci stava per lasciare senza gas.
La citta' conserva, in centro, un certo charme, anch'essa con edifici ottocenteschi ed architettura lignea tradizionale siberiana. Nel parco centrale, maggiore attrazione della citta' insieme alla cattedrale dalle cupole a cipolla dorate, sta un grosso parco divertimenti, con le attrazioni costruite in un bizzarro miscuglio di realismo sovietico, design orientale ed art nouveau.
Da qui vado alla vicina Tobolsk, provincialissima quantomeravigliosa perla siberiana, con il piu' bel cremlino al di la' degli Urali, e la citta' vecchia che si adagia ai suoi piedi, in un'ampia valle coperta di foresta sullo scosceso e pittoresco argine del fiume Irtysh.
Tobolsk e' l'immagine della mancanza di alternative di questa regione allo sviluppo industriale, insieme dannazione ed unica risorsa per la Siberia.
Un tempo centrale e benestante stazione di posta sulla strada verso est, Tobolsk rinuncio' volontariamente alla transiberiana, temendone sconvolgimenti della pace e dell'ambiente provocati dal rumore e dall'inquinamento dei treni.
Al contrario di Tomsk, che pote' mantenere parte della propria importanza grazie alla presenza dell'universita', per Tobolsk la scelta ha significato l'isolamento e il declino, che forse nemmeno il turismo, seppur in crescita, potra' arrestare.
La citta' ora langue sonnolenta, con strade spesso non asfaltate, senza un vero centro ne' luoghi adatti a creare aggregazione e vita sociale.
Ci sono molti miti da sfatare a proposito di un viaggio in transiberiana.
Innanzitutto, contrariamente a quanto molti pensano, questa e' una linea ferroviaria, sulla quale corrono treni da e per ciascuna delle grandi citta', e quindi non esiste il "treno transiberiano".
Cio' che piu' ci si avvicina e' il n. 1/2 "ROSSIJA" da Mosca a Vladivostok, con i vagoni decorati nei colori della bandiera russa, il piu' veloce dei treni sulla linea, che impiega quattro giorni e mezzo dalla moscova al pacifico.
Il viaggio in transiberiana va fatto in plaskartny, la terza classe. questa, affatto scomoda, e' composta da vagoni senza scompartimenti chiusi, ma con dieci gruppi di sei letti disposti a quadrato attorno a due tavolini, attraversati dal corridoio centrale.
Di giorno i tre letti inferiori diventano sedili, e sopra o sotto ciascun letto vi e' lo spazio per (parecchi) bagagli di ciascun passeggero.
Traghettatore e autorita' indiscussa del vagone e' la povodnitza (conduttrice), quasi sempre donna, piuttosto avanti con gli anni, invariabilmente torva almeno all'inizio del viaggio, e spesso ornata da acconciature assolutamente imbarazzanti.
E' a lei che ci si rivolge per le lenzuola, per qualsiasi genere di sostentamento si desideri (ma la capacita' imprenditoriale, e quindi la gamma di scelta, varia grandemente da povodnitza a povodnitza), e per qualunque altra necessita', seguendo la regola che l'umore di costei e' inversamente proporzionale alla quantita' di necessita' di ciascun passeggero. E' lei che si fa carico della pulizia dei bagni e della loro chiusura e riapertura all'arrivo in stazione (e anche qui la qualita' puo' subire drammatiche variazioni), ed e' sempre lei che regola a piacimento l'accesso al vagone di eventuali venditrici ambulanti di cibi, abbigliamento, stoffe, kalashnikov.
Altro luogo comune solo parzialmente vero e' che non si poss trovare un momento di pace: se e' vero che i russi sono una popolazione incredibilmente socievole, che certo non perde tempo a fare conoscenza, chiacchierare amabilmente e scambiarsi vivande e sigarette, e' anche vero che il viaggio medio tra due citta' vicine dura circa 12 ore, per cui c'e' tempo e possibilita' di leggere, dormire, ascoltare musica tanto quanto di mangiare, bere e chiacchierare con la gente.
Allo stesso tempo non e' vero che il treno, nemmeno in terza classe, sia un luogo pericoloso, infestato di trafficanti d'armi ed ubriachi.
Il problema dell'alcolismo e' certamente drammatico in Russia, dove le statistiche dicono che i maschi bevono 10/12 volte di piu' rispetto alla media mondiale, tanto da ridurre l'aspettativa di vita degli uomini a soli 58 anni contro i 74 delle donne: 58 anni e' in linea con le peggiori medie africane.
Ma il treno, cosi' come la maggior parte dei luoghi pubblici bar inclusi, non e' il luogo di questo dramma, che si consuma ben piu' tristemente tra le mura domestiche, con tutto cio' che ne consegue.
Certo si vedono birre e, piu' raramente, vodka sui tavolini, ma non mi e' ancora capitato di vedere un solo ubriaco sul treno, dove tra l'altro c'e' sempre la polizia a garantire la sicurezza.
Gli orari della ferrovia seguono il fuso di Mosca in tutto lo stato, obbligando il viaggiatore all'esercizio mentale di ricordare due diverse ore senza confonderle, compito che puo' creare problemi sopratutto se il proprio treno parte nel cuore della notte. Il viaggio in transiberiana srotola in continuazione splendidi paesaggi di foreste dal finestrino, ma ne' questo ne' buoni libri possono fare molto contro l'inevitabile noia, per la quale l'unica vera medicina e' la socializzazione con i compagni di viaggio: indispensabile bagaglio piu' di ogni altro qui sono la conoscenza almeno base del russo ed un carattere socievole.
L'assasinio della giornalista Anna Politkovskaya ha colpito duramente l'animo del russo medio.
Abituati alla fatica della vita di ogni giorno, i russi da sempre vivono il malgoverno come una calamita' naturale, una durezza da sopportare e alla quale non ci si puo' opporre. Ma, allo stesso tempo, il loro innato e candido amore di patria li porta a considerare la propria terra come inabile al male, seppur govenata da persone moralmente discutibili o autocratiche.
Cosi', al tempo della guerra fredda. il russo medio non capiva la ragione che portava il resto del mondo a temerli, cosi' come adesso la posizione russa in situazioni discutibili come la guerra cecena e' spesso supportata sulla base della convinzione dell'incapacita' della nazione di compiere azioni malvagie.
Ma l'omicidio della giornalista, cosi' come fu per la diffusione del dossier del kgb sull'operato di Stalin, scoperchia un vaso di Pandora, e lascia il russo sconvolto, tradito nella propria fiducia, perplesso.
"Non capisco cosa sta succedendo", mi dice Pavel, con gli occhi in basso e l'espressione seria. Provo a sondare due strade, dicendogli che e' improbabile che lo stesso Putin sia responsabile dell'ordine di eliminarla, ma al contempo sottolineo che il passato del presidente e di buona parte della attuale classe dirigente nelle fila del kgb ha probabilmente lasciato il segno sulla gamma di strumenti che questi considerano leciti in politica.
La sua risposta e' franca e diretta, e risuona della mentalita' che porto' a stravolgere la Russia per creare l'homo sovieticus: "la mia generazione non puo' piu' creare il buon governo per il paese, e probabilmente non cedera' di buon grado il potere che ha in mano. L'unica medicina dei mali russi e' un ricambio generazionale completo, siamo nelle mani dei nostri figli, sono loro la nuova russia".
Il tempo e la mentalita' di un intero popolo da ricostruire. Ecco le sfide del prossimo futuro di questo paese.
Gli Urali, che segnano il confine geografico tra Asia ed Europa, scorrono via morbidi, niente di piu' di dolci colline a questa latitudine. poi si inizia a scendere nella depressione del Volga, ampia conca scavata dal bacino del piu' grande fiume europeo, che verso il Caspio segnera' alcuni dei punti piu' bassi sotto il livello del mare nel pianeta.
Questa fu la terra dell'orda d'oro, il regno mongolo che mantenne per piu' a lungo il potere dopo il disfacimento dell'impero dei khan. I tatari, da noi erroneamente e sarcasticamente tradotti tartari dal nome dell'inferno greco, hanno giocato una parte fondamentale nella storia dell'intera regione dal Caspio al mar nero, fino al Baltico.
Fu Alexander Nevsky, verso la meta' del XIII secolo, il primo a provare a disinfrancare i principatii russi dal dominio tataro, ma si dovra' attendere l'avvento di una delle piu' affascinanti figure della storia russa per vedere soddisfatto questo desiderio indipendentista.
Dal 1530 alla fine del secolo sul trono di Russia, primo a fregiarsi del titolo di Tzar, e' Ivan il Terribile, in russo Grozny Ivan (i piu' attenti osservatori non mancheranno di cogliere l'omonimia con il nome della capitale cecena).
Eisenstein, negli anni venti, oltre alla celebre corazzata Potemkin annovera tra i propri capolavori un mastodontico film in due parti sulla vita di Ivan, in un incredibile (o noiosissimo, dipende dai gusti...) realismo socialista misto a sperimentazioni ardite di montaggio e fotografia eroica.
Il nostro Ivan, ben meritando il proprio appellativo, rase al suolo i khanati di Kazan ed Astrakhan, vere e proprie capitali tatare, edificando la cattedrale di San Basilio a Mosca ad imperitura memoria della propria grandezza. Il personaggio, con smodata teatralita', con un gusto ipicamente russo per le dimensioni sovrumane, una passione mai frenata per le esecuzioni pubbliche e per sontuose orge di cibo ed alcol che invariabilmente terminavano con l'incoscienza di tutti i commensali, ha i tratti comuni alla maggior parte di coloro che, dal governo del paese, hanno piu' drammaticamente modellato la storia nazionale: uno Stalin cinquecentesco insomma.
La Kazan di oggi, capitale dell'irrequieta repubblica del Tatarstan, si sviluppa lungo il largo Volga, che il bellissimo cremlino patrimonio dell'umanita' UNESCO domina dall'alto di una collina. All'interno delle mura si fronteggia la storia della Russia: da un lato una splendida moschea, enorme nei suoi minareti bianchi e cupole azzurre, simbolo della piu' alta latitudine raggiunta dalla diffusione dell'islam; dall'altro la cattedrale ortodossa dell'annunciazione, anch'essa sormontata da brillanti cupole azzurre e dorate.
In mezzo la torre Syuyumbike, che prende il nome dalla pricipessa tatara che qui si suicido' invece di accettare di sposare il buon Ivan dopo la sconfitta dei tatari. Il caro zar aveva una tale passione per il collezionismo di mogli che, al quarto matrimonio, si vide negare l'accesso a qualsiasi suolo sacro dall'irato partiarca, alche' decise di sposarsi ancora un paio di volte, e costruire una grata nel muro condiviso dal suo palazzo e dalla cattedrale nel cremlino di Mosca, per poter comunque assistere alla messa.
Costante degli autocrati russi: impongono la loro autorita' assoluta e lunatica su chiunque, ma mantengono un timor divino nel privato, unica autorita' che li possa spaventare, con la forza della superstizione; cosi' Stalin officio' di nascosto messa all'avvicinarsi delle armate di Hitler a Mosca, proprio nella cattedrale del cremlino che egli stesso aveva sconsacrato.
La Kazan moderna, tra le poche citta' russe in questa regione risparmiate dalla guerra, mantiene un'affascinante melange di atmosfere russe, asburgiche e centroasiatiche, sia nell'architetturasia nei volti della gente, ed il mercato centrale e' ricolmo di frutta secca e noci, panna acida e ayran, carne di agnello e teste di maiale, pane nero russo e lavash caucasico.
Kazan e' una citta' giovane e vitale, con un'universita' che ha educato alcune delle piu' importanti figure intellettuali del paese, da Lobacevski a Lenin, che ha qui per se' l'unica statua che lo ritrae giovane, in procinto di entrare in quell'edificio dal quale verra' espulso per attivita' rivoluzionarie.
E poi l'ultimo tratto prima della meta, la notte di treno mi fa risvegliare a Mosca, romantica e scorbutica, elegante e opprimente capitale della Russia.
Mosca e' opprimente, grigia, cupa, scorbutica; mosca e' anche bizzarra, sorprendente, barocca, attraente. Con le cupole delle chiese, dorate e splendenti nei colori brillanti che tanto piacciono all'architettura russa, e' la cartolina di un megalomane, la fantasia fiabesca di un sognatore unita agli incubi di un autocrate pazzo.
I moscoviti riflettono lunatici la loro citta', burocratici, rudi, autocommiseranti, e allo stesso tempo gioviali a vampate, bonari.
Mosca e' l'anima della Russia, ma non riesce a rappresentarla realmente, troppo incastonata tra i propri palazzi del potere e della cultura, troppo iltenta all'autocelebrazione: ai fatti, mosca e' tutto quello che la russia non e'.
La semplicita' e cordialita' della vita siberiana, la vitalita' travolgente dei popoli influenzati dall'oriente, od il raffinato edonismo dei pietroburghesi emergono solamente a sprazzi nel moscovita, e devono farsi strada attraverso una cortina di diffidenza costruita dal senso di vantata superiorita', che arriva al punto di richiedere la registrazione del soggiorno in capitale addirittura agli altri russi, che vengono multati da corrotti poliziotti, proprio come gli ingenui turisti.
Mosca e' insieme la delicata e sfarzosa arte della cattedrale di san basilio, e il grattacielo in cemento armato stalinista orlato da aguzzi pinnacoli che gli donano un tetro aspetto da castello delle streghe, entrambi dominanti il lento corso della moscova.
Pietroburgo e' tutto quello che Mosca non e'. Come la capitale e' chiusa, burocratica, opprimente, cosi' la porta russa sull'europa e' spaziosa, elegante, rilassante. a pietroburgo riappaiono i grazie ed i buongiorno, i sorrisi, le auto che si fermano mentre attraversi sulle strisce: si respira un'aria piu' libera, senza dover avere paura di opportuniste forze dell'ordine. Il vento scende dai mari artici increspando le acque del Ladoga, piu' grande lago d'Europa, e si incanala lungo i boulevard pietroburghesi, spazzando l'aria stantia e lo smog, e donando alla citta' un'atmosfera comune a stoccolma o copenhagen.
Pietroburgo apre la sua arte a tutti, cosi' come Mosca la custodisce gelosamente per se': qui gli studenti entrano gratis nei musei, ed i palazzi e le chiese si superano in magnificenza le une con le altre, a Mosca le perle piu' importanti sono racchiuse da cinte murarie e si sperdono nella grandezza dei viali cittadini e tra i palazzi del potere o del popolo.
Mosca ti cerca di schiacciare con la sua storia e cultura, Petroburgo te ne rende partecipe: nessuna sorpresa che la scelta cada invariabilmente sulla aristocratica regina del baltico.
Pietro il grande studia ad Amsterdam nel secolo d'oro della citta': impara l'olandese ed il tedesco, familiarizza con i mercanti della lega anseatica e del mare del nord, torna a casa e cerca il luogo piu' simile geograficaente alla capitale olandese: pero' quello che trova, quasi perfetto, alla foce della Neva, e' occupato dagli svedesi. Pietro li scaccia, e costruisce una delicata ed aristocratica citta' in bilico sui canali della foce del fiume, chiamandola Sankt Pitersburgh, con la pronuncia olandese e dal proprio santo patrono. La citta', sede di una delle piu' raffinate corti europee per tre secoli, e' la versione aristocratica della repubblicana e mercantile Amsterdam, ed in piu', come Stoccolma, e' bagnata dalla splendida ed avvolgente luce nordica, che arricchisce ciascuna delle poche grandi capitali che si trovano attorno ai 60 gradi nord di latitudine.
Capire la Russia, che e' insieme l'eredita' della Siberia, di Mosca, di Pietroburgo, e delle innumerevoli minoranze, richiede spopratutto la capacita' di capirne la cultura ed il pensiero: solo cosi' si puo' spiegare il culto della personalita' che i russi riservano a coloro che al momento incarnano di piu' il loro spirito di nazione. Pushkin, colui che ha sempre raccolto l'idolatria dei propri connazionali, e che adesso sembra l'unico in grado di prendere il posto ufficiale riservato nell'ultimo secolo a Lenin, sia nei monumenti sia come simbolo della mentalita' di tutto il popolo; entrare nella sua casa museo sui canali del centro di pietroburgo vuol dire accedere ad una processione religiosa, aggregarsi al gruppo silenzioso che segue la guida attraverso le sale della casa, spiegando con voce sicura i minimi dettagli del museo/mausoleo, addirittura con emozione al momento di mostrarne la corrispondenza od il calco in gesso del viso fatto al momento della morte del poeta; quasi ricorda Lenin nel suo mausoleo, ma forse questa adesso suonerebbe come una bestemmia all'orecchio russo.
L'animo del paese si puo' comprendere attraverso le parole che la sua cultura e' arrivata a creare: il russo non puo' fare a meno del sobornost, lo stare insieme, quello che gli permette di sentirsi difeso da qualunque minaccia ambientale o politica che sia. Nella sua giornata il suo pensiero esplode in parole, riversandosi su chiunque possa trovarsi nel proprio campo d'azione, per cercare confronto intellettuale: in russo si chiama umilenje, ed ha portato milioni di russi a costruire ferrovie o miniere indossando una camicia in Siberia. Ma d'altronde per i russi non e' la liberta' che conta, ma la volja, ovvero la liberta' incondizionata da leggi, assoluta, quella che porto' i decabristi a rimanere in Siberia dopo la concezione della grazia da parte dell'imperatore, in quanto solo la' potevano davvero sentirsi liberi. E questa rassegnazione alla sofferenza, all'oppresiione, alla durezza della vita si sintetizza nella toska, quell'insieme di noia, inerzia e malinconia che e' forse la caratteristica piu' evidente nei russi a vederli dall'esterno. Ma la loro vita e' scandita dal sudjba, il fato, caso e fortuna, per cui non sono portati a farsi schiacciare moralmente dalle avversita', ma le affrontano con estremo fatalismo, cosi' come con fatalismo evitano di lasciarsi travolgere dalla gioia: questo e' il terpenje, la rassegnazione.
Vi e' poi una parola che racchiude tutto questo, ed in piu' il rodina: dusha, che un dizionario tradurrebbe come anima, ma che in effetti ha un'accezione lontanissima da quella cristiana, tendendo ad indicare piu' nello specifico tutti i tratti denotativi della mentalita' del paese e dei suoi abitanti, la chiave insomma alla comprensione del pensiero russo.
Diari mongoli - Viaggio in Mongolia ottobre 2006
Il treno, che secondo i piani sarebbe dovuto essere quello del giorno prima, attraversa la frontiera appena dopo il tramonto, accompagnato dalla musica classica proveniente dagli altoparlanti sui binari. L'eredita' di anni ormai passati, quando le steppe mongole ed il Gobi erano il cuscinetto che manteneva la frizione sinosovietica appena sotto il livello critico, fa si che il nostro treno debba entrare in un enorme capannone, dove viene sollevato, e dove vengono sostituite le ruote con quelle piu' larghe del passo russo. Entrambi i gruppi di guardie di frontiera sono cortesi, ti accolgono con sorrisi e gentilezza, e questo e' gia' un gradito arrivederci/benvenuto per chiunque abbia attraversato confini asiatici.
Facciamo subito conoscenza con un inatteso visitatore proeniente dal Gobi: la polvere del deserto che tanto affligge la cina orientale aspetta solo il calar delle tenebre per invitarsi in qualunque angolo del vagone, creando un surreale effetto nebbia alla luce delle lampade elettriche dei corridoi.
Poi, col nuovo giorno, la sterminata steppa mongola, punellata solo da occasionali ger (le tende dei pastori nomadi) e mandrie di cammelli, pecore, bovini e cavalli, si apre sotto l'immenso cielo azzurro davanti agli occhi rapiti di chiunque si sporga dal finestrino per respirare un po' d'aria priva di terra.
I mongoli sono belli, in special modo gli uomini hanno lineamenti perfetti, come disegnati da linee, occhi come fessure, vispi e giovani, labbra piccole e nasi poco marcati, che donano all'espressione una grazia ed una dignita' incredibile. E cosi' le donne, che agli occhi occidentali soffrono solo per la loro robusta (ma mai grassa) corporatura, ma che hanno visi fieri e dolci al contempo.
Scoprire Ulan Bataar vuol dire entrare in un minuscolo paese, che sembra continuamente sul punto di perdere la lotta con la campagna circostante, cosi' carica di significato ed identita' per una popolazione prevalentemente nomade nonostante tutto. Ma la sorpresa viene notando come questo villaggio sia incredibilmente cosmopolita, come la gente parli correntemente o quasi inglese e russo oltre alla loro fascinosa ed incomprensibile lingua mongola, e come la citta' sia riuscita a sopravvivere all'assalto di qualunque ideologia ed influenza esterna, dal comunismo ed i suoi obrobri architettonici alla modernizzazione sfrenata che colpisce qualunque paese si sia aperto al libero e selvaggio mercato globale.
Dopo aver vagato per la curiosa Ulaanbataar per un paio di giorni, gustandone il mix di atmosfere postsovietiche e sciamanesimo nomade, rimanendo impressionato di fronte alle armature dell'esercito del gran Khan e davanti agli scheletri completi dei dinosauri del gobi, dopo aver riempito la pancia di montone con i taglierini, ravioli al vapore ripieni di montone, gnocchetti di farina e montone nel te', e conseguentemente dopo aver ormai acquisito addosso lo stesso odore delle banconote, dei sottopassi, di qualunque spazio chiuso, dei vestiti della gente, di un buon 50% delle strade (indovina un po', proprio l'odore dell'amato animale...), dopo tutto cio' insomma, e' venuto il momento di avviarmi alla scoperta della campagna del paese, che nel caso specifico rappresenta l'intera superficie dello stato ad esclusione del centro di Ulaanbataar, ma comprese le periferie.
Avendo avuto sentore della pochezza delle strade locali, che sommano la bellezza di 200km circa di asfalto su un paese lungo 2500 e largo 1800, ho puntato la sveglia di buon'ora per saltar su al primo furgoncino. Il problema e' che non ho fatto i conti con il concetto mongolo di guesthouse: la mia splendida cameretta in affitto, linda, con doccia calda colazione e cucina al folle costo di 3 euro/notte, e' parte della casa dell'affittacamere, che nella fattispecie e' un ragazzo di 23 anni, simpatico, con il classico faccione mongolo che piu' che genghis khan ricorda charlie brown. Impossibile non simpatizzare da subito, davanti a due birre e l'NBA via satellite. E cosi' difatti e' stato gia' dalla prima sera: peccato pero' che proprio ieri notte, verso mezzanotte, mentre ero ormai accoccolato nel letto tra le affettuose braccia di morfeo, qusto figuro entra nella mia stanza, accendendo la luce ed iniziando a chiamare josefino (che e' la miglior pronuncia per il mio nome ottenuta in mezz'ora di prove), questa volta si' con una voce che mostra chiaramente i geni in comune con il grande condottiero.
Non credo che sia mai pr un attimo passato per la sua testa che ad un europeo essere svegliato nel mezzo della notte potrebbe sembrare quantomeno bizzarro, e d'altronde l'occasione non permetteva ripensamenti: con lui c'erano infatti la sua ragazza, due amici ed un'intera bottiglia di birra non filtrata da 2,5 litri! Come avrebbe mai potuto dormire il poveretto sapendo di non aver reso partecipe di un cosi' importante momento il suo nuovo amico straniero!
La serata e' quindi inaspettatamente (per me) ripresa, vivacizzata da una corsa di cavalli con le rotule di pecora, forse il gioco piu' amato dai mongoli dopo la lotta tra ciccioni, e certamente il non-plus-ultra nella categoria "giochi da tavolo non violenti".
Fortunatamente, il tempismo mongolo, che ha filo da torcere per quelli greco e messicano, mi ha permesso con tutta comodita' di svegiarmi 2 ore dopo e comunque prendere senza affanno il minibus in questione. La destinazione e' la "roccia madre", una curiosa formazione rocciosa che sembra in effetti una figura umana (mongola senza dubbio, data la stazza), e che per questo da secoli immemori e' meta di pellegrinaggio, in barba alla versione ufficiale che vuole della Mongolia un paese laico a maggioranza buddhista. Questa roccia, che si trova nel mezzo del nulla a un po' di piu' di 100 km a sud della capitale, ha resistito alla dinamite ed ai trattori sovietici, decisi ad estirparla in quanto simbolo dell'antico mondo feudale, nemico giurato del comunismo: questo dovrebbe potervi dare un'idea sopratutto della corporatura delle madri mongole, di cui tra l'altro la nostra roccia veste gli abiti.
Il pellegrinaggio e' toccante per la carica emotiva che la gente porta dentro di se', assolutamente certa da sempre che non ci sia niente di piu' certo e concreto delle credenze radicate nelle generazioni della propria storia.
E cosi' mi ritrovo di nuovo testimone dell'Asia piu' vera, atavica, dotata di una carica vitale primitiva che ancora scorre travolgente, e contro la quale nessuna dottrina importata centrata su doveri e proibizioni puo' opporsi: che sia l'islam a besh barmaq in Azerbaijan, o il buddhismo qui alla roccia madre in Mongolia, o il cattolicesimo nelle Filippine, o l'ortodossia russa in Buriazia, l'Asia e' e rimane scaimana, mistica, assolutamente originale e tradizionalista nei propri miti. E forse e' proprio questa la sua forza, la base del suo fascino, e la lezione che puo' esportare.
Le antiche rocce, ormai rese come enormi ciottoli marini dai millenni di erosione, spuntano da pendii collinari che ricordano le alpi nostrane, e vengono incorniciate dall'oro brillante dei pini e delle betulle in tenuta autunnale. Qua e la' spuntano le ger dei nomadi, bianche con le loro porte in legno finemente decorate. All'improvviso due cavalieri, con i loro sventolanti mantelli invernali ed i cappelli tradizionali a punta, sbucano a tutta velocita' da dietro un colle, lanciandosi con furia da togliere il respiro solo a guardarli in una gara di velocita'. Poi, dalle nuvole che hanno macchiato l'azzurro brillante del cielo mongolo, si sprigiona un'intera gamma di colori, dal rosso incendio a tutte le tonalita' dell'arancio e del turchese, e mi fermo accanto a due giovani mongoli silenziosi ed accanto ad un ovoo (le piramidi di pietre e bandiere) di preghiera, ad ammirare la potenza della natura allo stato piu' selvaggio.
Questa e' la campagna mongola, una terra che ti strappa il cuore dal petto e lo sparge su se stessa, dove certamente restera' a lungo.
E questo e' forse l'ultimo baluardo di uno stile di vita ancestrale, che non chiede strade o facilita' di comunicazione, che non chiede beni, ma che si inorgoglisce della ferocia della natura piu' selvaggia, che fa un vanto del fatto di poter ricompensare i suoi discepoli con la possibilta' ci raggiungere luoghi dove ancora mai nessun altro ha messo piede, ma che in cambio chiede di convivere con le tempeste di polvere, con 40 gradi sotto zero ce in meno di un mese diventano 40 sopra, con la necessita' di convivere continuamente con la fatica, indipendentemente da quanto ci si adoperi per ridurla attraverso la tecnologia: qui un buon fuoristrada non e' meno stancante o piu' comodo di un cavallo, o di spostarsi a piedi.
Continuera' ad essere cosi? Se dovesse cambiare, quello che e' certo e' che l'Asia ed in generale l'intera umanita' perderebbe il piu' significativo baluardo delle proprie origini e di quel mondo dove e' ancora la naturaa regolare la vita, e non viceversa.
Facciamo subito conoscenza con un inatteso visitatore proeniente dal Gobi: la polvere del deserto che tanto affligge la cina orientale aspetta solo il calar delle tenebre per invitarsi in qualunque angolo del vagone, creando un surreale effetto nebbia alla luce delle lampade elettriche dei corridoi.
Poi, col nuovo giorno, la sterminata steppa mongola, punellata solo da occasionali ger (le tende dei pastori nomadi) e mandrie di cammelli, pecore, bovini e cavalli, si apre sotto l'immenso cielo azzurro davanti agli occhi rapiti di chiunque si sporga dal finestrino per respirare un po' d'aria priva di terra.
I mongoli sono belli, in special modo gli uomini hanno lineamenti perfetti, come disegnati da linee, occhi come fessure, vispi e giovani, labbra piccole e nasi poco marcati, che donano all'espressione una grazia ed una dignita' incredibile. E cosi' le donne, che agli occhi occidentali soffrono solo per la loro robusta (ma mai grassa) corporatura, ma che hanno visi fieri e dolci al contempo.
Scoprire Ulan Bataar vuol dire entrare in un minuscolo paese, che sembra continuamente sul punto di perdere la lotta con la campagna circostante, cosi' carica di significato ed identita' per una popolazione prevalentemente nomade nonostante tutto. Ma la sorpresa viene notando come questo villaggio sia incredibilmente cosmopolita, come la gente parli correntemente o quasi inglese e russo oltre alla loro fascinosa ed incomprensibile lingua mongola, e come la citta' sia riuscita a sopravvivere all'assalto di qualunque ideologia ed influenza esterna, dal comunismo ed i suoi obrobri architettonici alla modernizzazione sfrenata che colpisce qualunque paese si sia aperto al libero e selvaggio mercato globale.
Dopo aver vagato per la curiosa Ulaanbataar per un paio di giorni, gustandone il mix di atmosfere postsovietiche e sciamanesimo nomade, rimanendo impressionato di fronte alle armature dell'esercito del gran Khan e davanti agli scheletri completi dei dinosauri del gobi, dopo aver riempito la pancia di montone con i taglierini, ravioli al vapore ripieni di montone, gnocchetti di farina e montone nel te', e conseguentemente dopo aver ormai acquisito addosso lo stesso odore delle banconote, dei sottopassi, di qualunque spazio chiuso, dei vestiti della gente, di un buon 50% delle strade (indovina un po', proprio l'odore dell'amato animale...), dopo tutto cio' insomma, e' venuto il momento di avviarmi alla scoperta della campagna del paese, che nel caso specifico rappresenta l'intera superficie dello stato ad esclusione del centro di Ulaanbataar, ma comprese le periferie.
Avendo avuto sentore della pochezza delle strade locali, che sommano la bellezza di 200km circa di asfalto su un paese lungo 2500 e largo 1800, ho puntato la sveglia di buon'ora per saltar su al primo furgoncino. Il problema e' che non ho fatto i conti con il concetto mongolo di guesthouse: la mia splendida cameretta in affitto, linda, con doccia calda colazione e cucina al folle costo di 3 euro/notte, e' parte della casa dell'affittacamere, che nella fattispecie e' un ragazzo di 23 anni, simpatico, con il classico faccione mongolo che piu' che genghis khan ricorda charlie brown. Impossibile non simpatizzare da subito, davanti a due birre e l'NBA via satellite. E cosi' difatti e' stato gia' dalla prima sera: peccato pero' che proprio ieri notte, verso mezzanotte, mentre ero ormai accoccolato nel letto tra le affettuose braccia di morfeo, qusto figuro entra nella mia stanza, accendendo la luce ed iniziando a chiamare josefino (che e' la miglior pronuncia per il mio nome ottenuta in mezz'ora di prove), questa volta si' con una voce che mostra chiaramente i geni in comune con il grande condottiero.
Non credo che sia mai pr un attimo passato per la sua testa che ad un europeo essere svegliato nel mezzo della notte potrebbe sembrare quantomeno bizzarro, e d'altronde l'occasione non permetteva ripensamenti: con lui c'erano infatti la sua ragazza, due amici ed un'intera bottiglia di birra non filtrata da 2,5 litri! Come avrebbe mai potuto dormire il poveretto sapendo di non aver reso partecipe di un cosi' importante momento il suo nuovo amico straniero!
La serata e' quindi inaspettatamente (per me) ripresa, vivacizzata da una corsa di cavalli con le rotule di pecora, forse il gioco piu' amato dai mongoli dopo la lotta tra ciccioni, e certamente il non-plus-ultra nella categoria "giochi da tavolo non violenti".
Fortunatamente, il tempismo mongolo, che ha filo da torcere per quelli greco e messicano, mi ha permesso con tutta comodita' di svegiarmi 2 ore dopo e comunque prendere senza affanno il minibus in questione. La destinazione e' la "roccia madre", una curiosa formazione rocciosa che sembra in effetti una figura umana (mongola senza dubbio, data la stazza), e che per questo da secoli immemori e' meta di pellegrinaggio, in barba alla versione ufficiale che vuole della Mongolia un paese laico a maggioranza buddhista. Questa roccia, che si trova nel mezzo del nulla a un po' di piu' di 100 km a sud della capitale, ha resistito alla dinamite ed ai trattori sovietici, decisi ad estirparla in quanto simbolo dell'antico mondo feudale, nemico giurato del comunismo: questo dovrebbe potervi dare un'idea sopratutto della corporatura delle madri mongole, di cui tra l'altro la nostra roccia veste gli abiti.
Il pellegrinaggio e' toccante per la carica emotiva che la gente porta dentro di se', assolutamente certa da sempre che non ci sia niente di piu' certo e concreto delle credenze radicate nelle generazioni della propria storia.
E cosi' mi ritrovo di nuovo testimone dell'Asia piu' vera, atavica, dotata di una carica vitale primitiva che ancora scorre travolgente, e contro la quale nessuna dottrina importata centrata su doveri e proibizioni puo' opporsi: che sia l'islam a besh barmaq in Azerbaijan, o il buddhismo qui alla roccia madre in Mongolia, o il cattolicesimo nelle Filippine, o l'ortodossia russa in Buriazia, l'Asia e' e rimane scaimana, mistica, assolutamente originale e tradizionalista nei propri miti. E forse e' proprio questa la sua forza, la base del suo fascino, e la lezione che puo' esportare.
Le antiche rocce, ormai rese come enormi ciottoli marini dai millenni di erosione, spuntano da pendii collinari che ricordano le alpi nostrane, e vengono incorniciate dall'oro brillante dei pini e delle betulle in tenuta autunnale. Qua e la' spuntano le ger dei nomadi, bianche con le loro porte in legno finemente decorate. All'improvviso due cavalieri, con i loro sventolanti mantelli invernali ed i cappelli tradizionali a punta, sbucano a tutta velocita' da dietro un colle, lanciandosi con furia da togliere il respiro solo a guardarli in una gara di velocita'. Poi, dalle nuvole che hanno macchiato l'azzurro brillante del cielo mongolo, si sprigiona un'intera gamma di colori, dal rosso incendio a tutte le tonalita' dell'arancio e del turchese, e mi fermo accanto a due giovani mongoli silenziosi ed accanto ad un ovoo (le piramidi di pietre e bandiere) di preghiera, ad ammirare la potenza della natura allo stato piu' selvaggio.
Questa e' la campagna mongola, una terra che ti strappa il cuore dal petto e lo sparge su se stessa, dove certamente restera' a lungo.
E questo e' forse l'ultimo baluardo di uno stile di vita ancestrale, che non chiede strade o facilita' di comunicazione, che non chiede beni, ma che si inorgoglisce della ferocia della natura piu' selvaggia, che fa un vanto del fatto di poter ricompensare i suoi discepoli con la possibilta' ci raggiungere luoghi dove ancora mai nessun altro ha messo piede, ma che in cambio chiede di convivere con le tempeste di polvere, con 40 gradi sotto zero ce in meno di un mese diventano 40 sopra, con la necessita' di convivere continuamente con la fatica, indipendentemente da quanto ci si adoperi per ridurla attraverso la tecnologia: qui un buon fuoristrada non e' meno stancante o piu' comodo di un cavallo, o di spostarsi a piedi.
Continuera' ad essere cosi? Se dovesse cambiare, quello che e' certo e' che l'Asia ed in generale l'intera umanita' perderebbe il piu' significativo baluardo delle proprie origini e di quel mondo dove e' ancora la naturaa regolare la vita, e non viceversa.
Diari cinesi - Viaggio in Cina settembre 2006
Eccomi arrivato nella capitale del celeste impero, o terra di mezzo, come si amano chiamare loro.
La discesa con l'aereo nella nebbia che ricopriva la citta' mi ha immediatamente ricordato la pianura nostrana che mi sono lasciato alle spalle, e la via verso il centro, puntellata di grattacieli in costruzione e tagliata per lungo dalla nuovissima autostrada che ti porta direttamente nel centro pulsante della metropoli, ricorda una qualunque delle grandi citta' occidentali, da New York a Milano.
Poi, vagare per gli ampi viali per imarare ad orientarsi nella titanica giungla urbana, camminando chilometri.
Lungo la strada, si va da titanici edifici appena costruiti a piccoli mercati, dove le passioni dei cinesi trovano il loro habitat: grilli da combattimento, pesci tropicali, pennelli da calligrafia, erbe e spezie secche per cucinare, pozioni della medicina tradizionale, riflessologia plantare: e ancora, mille facce diverse, chiaramente originarie di luoghi lontani tra loro, ti offrono il loro personale assaggio di cultura tradizionale.
Un uighuro dalle lentiggini rosse e la faccia centroasiatica mi offre un dolce colante miele e ricoperto di frutta secca e noci, vere specialita' della sua terra lontana 5 fusi orari da qui: quando gli chiedo se viene dallo xingjiang, regione sferzata dallo spirito indipententista nell'estremo occidente cinese, esplode in un sorriso, si ammorbidisce sulla contrattazione in corso per il prezzo della sua merce, e mi chiede di fotografarlo.
L'apertura cinese verso l'esterno sembra aver sopratutto favorito il grande vicino a nord, quella russia che ha molto da offrire a Pechino, che vi riversa le proprie merci, e che in cambio non sembra aver intenzione di imporre i propri valori.
In effetti il concetto di liberta' potrebbe venir rivisto alla luce della "via cinese alla democrazia", dove tutti sembrano avere quello che desiderano, e dove tutto sommato le liberta' politiche forse non hanno la stessa importanza che da noi.
I cinesi stanno crescendo, l'educazione e' sempre piu' diffusa e non sono poi cosi' pochi quelli che stanno iniziando a parlare la lingua del "paese meraviglioso", ovvero come per un'assonanza di caratteri puo' essere interpretato il nome cinese dell'america.
E con questa, cresce anche la curiosita' per "l'uomo esterno", lo straniero, che sempre piu' viene a scoprire questo paese dove tutto sembra sul punto di accadere.
E cosi', capita facilmente che ci si fermi ore ed ore a parlare, travalicando subito i limiti imposti dal mio ancora scarso cinese, con la comprensione reciproca frutto sopratutto della reciproca curiosita' di scoprire due mondi fino a poco fa' ignoti, ma mai tanto alla portata di entrambi.
Pechino e' una citta' tranquilla, con strade pulite e traffico ordinato, un incredibile fervore culturale ed una carica che penso possano aver provato solo coloro che hanno vissuto la New York degli anni migliori, quando gli occhi del mondo erano tutti puntati verso la sponda ocidentale dell'atlantico. Ora e' facile intuire che quegli stessi occhi stiano guardando qui.
Ho ricevuto il nome cinese, da una ragazza con cui in un eccellente inglese abbiamo chiacchierato un'intera sera: mi chiamero' yang guang, splendore del sole: anche questo fa parte del fascino di questo oriente cosi' accattivante.
Gli occidentali hanno sempre cercato di fare buoni affari in cina, senza peraltro mai riuscirci da tempo immemorabile.
Forse pero' qualcosa sta cambiando in questo paese, dove sembra davvero che tutto sia sul punto di accadere. La via cinese alla modernizzazione parla un linguaggio radicalmente diverso da quello americano, un linguaggio nato sull'eredita' di lacrime e sangue degli anni della rivoluzione, ma anche sul senso di uguaglianza e coesione sociale gia' radicato nella mentalita' tradizionale cinese in particolare ed asiatica in generale. Cosi', la cina e' riuscita a preservare la sottostruttura sociale di support famigliari e di comunita' che fa' da rete di sicurezza contro la poverta' e l'isolamento degli individui, portando un'intera popolazione a giovare dell'impressionante crescita economica che questo enorme paese sta godendo, anche se con evidenti diseguaglianze, e mantenendo la poverta' in una dimensione "asiatica", meno estrema e drammatica anche se piu' diffusa di quella occidentale.
E, insieme alla cultura tradizionale ed alla religiosita', la Cina si sta riappropriando anche della naturale propensione della propria gente alla curiosita' verso lo straniero, che diventa eccezionale ospitalita'.
La citta' proibita, il templio del cielo, la muraglia cinese, le pagode a torre con la loro classica forma svettante: le attrazioni che a pechino sono in grado di stimolare l'immaginazione certo non mancano, ma la vera sorpresa, che accompagna l'immancabile meraviglia, e' l'atteggiamento dei cinesi verso i resti della propria cultura tradizionale. Dal rischio di perdere opere di valore incomparabile come queste per ragioni ideologiche, i cinesi si sono riappropriati dei simboli della loro storia avidamente, ed ora sciamano in massa verso questi luoghi con una carica emotiva che fa pensare di piu' al pellegrinaggio che al semplice turismo culturale. E' enorme l'emozione nel vederli toccare con deferenza i simboli della loro cultura, e vederli inginocchiare di fronte a questi con un fervore pari a quello che riservano per i loro templi religiosi.
Il turismo interno e' qui superiore a qualunque altro luogo che mi sia capitato di vedere, e nonostante i loro modi siano piuttosto infantili e lascino chiaramente trasparire la loro ineducazione nell approccio al patrimonio artistico, la voglia di riappropriarsene anche come simbolo di identita' culturale e incredibilmente evidente e coinvolgente.
dicono che i cinesi colti siano senza dubbio tra le persone piu' squisite e raffinate al mondo, ed inizio fortemente ad essere daccordo.
La cerimonia del te', l'opera di pechino: due tradizioni risalenti al lontano passato cinese che si mantengono nella loro spettacolarita', ricercatezza e perfezione tutt'oggi.
Le case da te' che praticano ancora il rito tradizionale sono in realta' case private di persone colte ed educate, che si dilettano in altre arti quali l'inebriante musica tradizionale e la delicata pittura calligrafica: entrando, si e' accolti dal padrone di casa con un sorriso, ed invitati ad accomodarsi. La cerimonia si basa sulla tranquillita' e calma, elementi essenziali per assaporare il piacere di una buona conversazione e di un'atmosfera coinvolgente e rilassante, vero obiettivo del rito.
Il te' viene servito in bicchieri di vetro, lavati da acqua calda e di dimensioni diverse a seconda del sesso del commensale, per adattarsi al meglio alla dimensione della mano. poi, il te' fragrante di eccellente qualita' viene messo nel bicchiere, sommerso a pelo da un po' di acqua calda, e fatto ossigenare come con un buon vino; a questo punto e' pronto per ricevere il resto dell'acqua, fatta bollire ma lasciata raffreddare un momento prima dell'uso per evitare che dalle foglie di te' si sprigioni il tannino, che lo renderebbe aspro.
Il te' si gusta a piccoli sorsi, e nel mentre l'ospite intrattiene i commensali spiegando ogni passo del processo (anche con un po' di pazienza, come nel nostro caso ha richiesto la limitata conoscenza del cinese...), parlando sempre a voce moderata per non turbare la quiete, e poi suonando musica tradizionale accompagnandosi spesso con il canto, o mostrando esempi della pratica calligrafica, argomento tra i piu' appropriati per questo genere di conversazione.
Salti acrobatici; gong, tamburi, cembali e strumenti a corda che suonano a ritmo dell'azione come una colonna sonora; costumi e trucco ricercati fino al minimo particolare, e pieni di una simbologia di ispirazione buddhista, in grado cioe' di far riconoscere i personoaggi, il loro grado e carattere; discorsi (in cinese classico) ridotti all'osso, parlati ad alta voce e con toni definiti invece che naturali, in modo da spiegare con efficienza in poche parole quel poco della trama che l'azione non puo' da sola; espressioni facciali fisse: questo interessante miscuglio tra arti marziali e teatro greco classico della tragedia o commedia e' l'opera di Pechino, una delle piu' belle forme di teatro cinese, e certamente la piu' spettacolare agli occhi dei barbari stranieri, e per questo cosi' popolare.
Le storie, ambientate nella mitologia tradizionale e spesso con trame piene dei combattimenti che vengono efficacemente rappresentati dagli incredibili numeri d'acrobazia degli attori, sono un sussieguo di frenetici momenti d'azione dinamica inframezzati a pause accompagnate dalla musica, e raggiungono da subito un climax che riescono a mantenere quasi in continuazione per tutto lo spettacolo, che non puo' non affascinare.
Le sfaccettature di un paese come la cina sono molteplici e a volte
difficilmente comprensibili, e questo puo' modificare le impressioni e
l'esperienza personale dello straniero di passaggio in maniera radicale.
I cinesi passano da essere incredibilmente curiosi, affascinanti e raffinati ad
ignoranti ineducati, incapaci di vivere in modo civile, ed incredibilmente
irritanti: sono probabilmente entrambi, e non ci dovrebbe essere da stupirne,
considerandone il numero.
Fermo restando la totale attrazione che questa terra e la sua cultura esercitano
su di me, non mi lasciano certo indifferente, anzi mi fanno inbufalire alcuni
comportamenti locali.
Se un cinese e' ottuso, lo sara' in maniera a malapena immaginabile anche dai
peggiori burocrati nostrani, rifiutandosi a priori di cercare di stabilire un
dialogo e sfruttando al massimo la propria (spesso risibile) autorita'; non e'
raro ritrovarsi in situazioni del tutto surreali, in cui mi capita di parlare
in cinese con qualcuno che, dopo il primo momento di panico, spocchiosamente mi
tratta come un cane parlante, e nel frattempo si avvale della traduzione (dal
cinese al cinese...) di chiunque gli si sia fermato attorno incuriosito dalla
scena.
E spesso in effetti questi personaggi si trovano in quelloe posizioni, tanto
care alla letteratura cinese, in grado di imporre la propria autorita' su
chiunque ne sia in balia, e al contempo essere untuosi ed accomodanti su chi ha
l'autorita' o la forza per non esserne influenzato.
Al lato pratico, vieni continuamente rimproverato dagli ausiliari del traffico
se scendi un piede dal marciapiede quando passano le macchine, ma nessuno di
questi figuri si immaginerebbe mai di fermare le macchine che passano agli
incroci col rosso a tutta velocita' e clacson spianati, senza curarsi che ci
siano o meno in mezzo biciclette, pedoni, e qualunque altro mezzo che
perderebbe un contrasto fisico.
Altra bieca figura sono i gestori di servizi non essenziali, dai receptionist
degli alberghi ai gestori di internet cafe', a chiunque altro abbia l'autorita'
per importi una procedura rigorosa quanto insulsa.
Isola felice in questo sono le categorie che da noi racchiudono spesso la creme
dell'ottusita': e' impressionante l'efficienza, la buona volonta' e la cortesia
di sportellisti alle biglietterie di treni e autobus, degli impiegati delle
poste, dei camerieri nei ristoranti, anche se costretti a confrontarsi con
diavoli stranieri che biascicano sconnessamente i suoni della bella lingua
della terra di mezzo (per chi non lo sapesse: zhong=mezzo guo=terra, ovvero
cina).
Xi'an, ShangHai, l'armata di terracotta, il Bund; nomi e posti che stuzicano
certamente l'immaginazione, e che ad un occhio attento non sfuggira' come si
trovino ad una distanza enorme l'uno dall'altro.
Ecco un altro deg;i incredibili paradossi della Cina: le distanze, amplificate
fino all'inverosimile all'inteno di una nazione sconfinata, si distorcono e
riducono, fino a rendere possibile una gita fuori porta di una settimana e
circa cinquemila chilometri senza per questo perdere energia e voglia di
scoprire l'incredibile nuovo volto che questo paese ti mostra.
La grandeur cinese si riflette in ogni momento della propria storia, in ogni
mastodontica espressione culturale e sociale in grado di nullificare il singolo
essere umano di fronte alla societa', all'autorita' vigente, alla totalizzante
presenza di una cultura che abbraccia enormita' di uomini e territori.
L'armata di terracotta, uguale, ripetitiva e sterminata; piazza del popolo e la
nuova ShangHai, con gli sfolgoranti grattacieli sempre illuminati, mastodontici
ed eleganti nel contempo; piazza TianAnMen e l'enormita' dei boulevard
pechinesi: la Cina ti avvolge, ti circonda, ti coinvolge che tu lo voglia o
meno. Ma senza schiacciarti con proporzioni inumane come nelle rappresentazioni
monumentali della cultura indoeuropea, bensi' legandoti indissolubilmente
attraverso la continua riproposizione di simboli che non ti permettono di
staccarti dalle tue radici, ne' di discuterle: chi sei tu, d'atronde, per
farlo?
E' tempo di lasciare la cina. domani mattina, di buon'ora, un treno mi portera' verso le sconfinate steppe ed il misterioso deserto dei gobi, in Mongolia.
E' difficile spiegarmi che cosa sto provando nel lasciare un posto cosi' fertile per le mie impressioni, emozioni ed esperienze, e credo che il senso di distacco sia viziato dall'affascinante via di ritorno che mi attende, e dalla certezza, ora piu' che mai, che saro' di nuovo qui al piu' presto a godere delle stranezze del paese che tanto affascino' marco polo: a provare la claustrofobia da folla nella metropolitana; la genuina accoglienza degli avventori delle bettole; la frenesia dei venditori, inversamente proporzionale alla qualita' della loro merce; a mangiare ravioli al vapore, dolci uighuri traboccanti miele e noci, teste d'anatra, stelle marine fritte, stufato di cane...
La discesa con l'aereo nella nebbia che ricopriva la citta' mi ha immediatamente ricordato la pianura nostrana che mi sono lasciato alle spalle, e la via verso il centro, puntellata di grattacieli in costruzione e tagliata per lungo dalla nuovissima autostrada che ti porta direttamente nel centro pulsante della metropoli, ricorda una qualunque delle grandi citta' occidentali, da New York a Milano.
Poi, vagare per gli ampi viali per imarare ad orientarsi nella titanica giungla urbana, camminando chilometri.
Lungo la strada, si va da titanici edifici appena costruiti a piccoli mercati, dove le passioni dei cinesi trovano il loro habitat: grilli da combattimento, pesci tropicali, pennelli da calligrafia, erbe e spezie secche per cucinare, pozioni della medicina tradizionale, riflessologia plantare: e ancora, mille facce diverse, chiaramente originarie di luoghi lontani tra loro, ti offrono il loro personale assaggio di cultura tradizionale.
Un uighuro dalle lentiggini rosse e la faccia centroasiatica mi offre un dolce colante miele e ricoperto di frutta secca e noci, vere specialita' della sua terra lontana 5 fusi orari da qui: quando gli chiedo se viene dallo xingjiang, regione sferzata dallo spirito indipententista nell'estremo occidente cinese, esplode in un sorriso, si ammorbidisce sulla contrattazione in corso per il prezzo della sua merce, e mi chiede di fotografarlo.
L'apertura cinese verso l'esterno sembra aver sopratutto favorito il grande vicino a nord, quella russia che ha molto da offrire a Pechino, che vi riversa le proprie merci, e che in cambio non sembra aver intenzione di imporre i propri valori.
In effetti il concetto di liberta' potrebbe venir rivisto alla luce della "via cinese alla democrazia", dove tutti sembrano avere quello che desiderano, e dove tutto sommato le liberta' politiche forse non hanno la stessa importanza che da noi.
I cinesi stanno crescendo, l'educazione e' sempre piu' diffusa e non sono poi cosi' pochi quelli che stanno iniziando a parlare la lingua del "paese meraviglioso", ovvero come per un'assonanza di caratteri puo' essere interpretato il nome cinese dell'america.
E con questa, cresce anche la curiosita' per "l'uomo esterno", lo straniero, che sempre piu' viene a scoprire questo paese dove tutto sembra sul punto di accadere.
E cosi', capita facilmente che ci si fermi ore ed ore a parlare, travalicando subito i limiti imposti dal mio ancora scarso cinese, con la comprensione reciproca frutto sopratutto della reciproca curiosita' di scoprire due mondi fino a poco fa' ignoti, ma mai tanto alla portata di entrambi.
Pechino e' una citta' tranquilla, con strade pulite e traffico ordinato, un incredibile fervore culturale ed una carica che penso possano aver provato solo coloro che hanno vissuto la New York degli anni migliori, quando gli occhi del mondo erano tutti puntati verso la sponda ocidentale dell'atlantico. Ora e' facile intuire che quegli stessi occhi stiano guardando qui.
Ho ricevuto il nome cinese, da una ragazza con cui in un eccellente inglese abbiamo chiacchierato un'intera sera: mi chiamero' yang guang, splendore del sole: anche questo fa parte del fascino di questo oriente cosi' accattivante.
Gli occidentali hanno sempre cercato di fare buoni affari in cina, senza peraltro mai riuscirci da tempo immemorabile.
Forse pero' qualcosa sta cambiando in questo paese, dove sembra davvero che tutto sia sul punto di accadere. La via cinese alla modernizzazione parla un linguaggio radicalmente diverso da quello americano, un linguaggio nato sull'eredita' di lacrime e sangue degli anni della rivoluzione, ma anche sul senso di uguaglianza e coesione sociale gia' radicato nella mentalita' tradizionale cinese in particolare ed asiatica in generale. Cosi', la cina e' riuscita a preservare la sottostruttura sociale di support famigliari e di comunita' che fa' da rete di sicurezza contro la poverta' e l'isolamento degli individui, portando un'intera popolazione a giovare dell'impressionante crescita economica che questo enorme paese sta godendo, anche se con evidenti diseguaglianze, e mantenendo la poverta' in una dimensione "asiatica", meno estrema e drammatica anche se piu' diffusa di quella occidentale.
E, insieme alla cultura tradizionale ed alla religiosita', la Cina si sta riappropriando anche della naturale propensione della propria gente alla curiosita' verso lo straniero, che diventa eccezionale ospitalita'.
La citta' proibita, il templio del cielo, la muraglia cinese, le pagode a torre con la loro classica forma svettante: le attrazioni che a pechino sono in grado di stimolare l'immaginazione certo non mancano, ma la vera sorpresa, che accompagna l'immancabile meraviglia, e' l'atteggiamento dei cinesi verso i resti della propria cultura tradizionale. Dal rischio di perdere opere di valore incomparabile come queste per ragioni ideologiche, i cinesi si sono riappropriati dei simboli della loro storia avidamente, ed ora sciamano in massa verso questi luoghi con una carica emotiva che fa pensare di piu' al pellegrinaggio che al semplice turismo culturale. E' enorme l'emozione nel vederli toccare con deferenza i simboli della loro cultura, e vederli inginocchiare di fronte a questi con un fervore pari a quello che riservano per i loro templi religiosi.
Il turismo interno e' qui superiore a qualunque altro luogo che mi sia capitato di vedere, e nonostante i loro modi siano piuttosto infantili e lascino chiaramente trasparire la loro ineducazione nell approccio al patrimonio artistico, la voglia di riappropriarsene anche come simbolo di identita' culturale e incredibilmente evidente e coinvolgente.
dicono che i cinesi colti siano senza dubbio tra le persone piu' squisite e raffinate al mondo, ed inizio fortemente ad essere daccordo.
La cerimonia del te', l'opera di pechino: due tradizioni risalenti al lontano passato cinese che si mantengono nella loro spettacolarita', ricercatezza e perfezione tutt'oggi.
Le case da te' che praticano ancora il rito tradizionale sono in realta' case private di persone colte ed educate, che si dilettano in altre arti quali l'inebriante musica tradizionale e la delicata pittura calligrafica: entrando, si e' accolti dal padrone di casa con un sorriso, ed invitati ad accomodarsi. La cerimonia si basa sulla tranquillita' e calma, elementi essenziali per assaporare il piacere di una buona conversazione e di un'atmosfera coinvolgente e rilassante, vero obiettivo del rito.
Il te' viene servito in bicchieri di vetro, lavati da acqua calda e di dimensioni diverse a seconda del sesso del commensale, per adattarsi al meglio alla dimensione della mano. poi, il te' fragrante di eccellente qualita' viene messo nel bicchiere, sommerso a pelo da un po' di acqua calda, e fatto ossigenare come con un buon vino; a questo punto e' pronto per ricevere il resto dell'acqua, fatta bollire ma lasciata raffreddare un momento prima dell'uso per evitare che dalle foglie di te' si sprigioni il tannino, che lo renderebbe aspro.
Il te' si gusta a piccoli sorsi, e nel mentre l'ospite intrattiene i commensali spiegando ogni passo del processo (anche con un po' di pazienza, come nel nostro caso ha richiesto la limitata conoscenza del cinese...), parlando sempre a voce moderata per non turbare la quiete, e poi suonando musica tradizionale accompagnandosi spesso con il canto, o mostrando esempi della pratica calligrafica, argomento tra i piu' appropriati per questo genere di conversazione.
Salti acrobatici; gong, tamburi, cembali e strumenti a corda che suonano a ritmo dell'azione come una colonna sonora; costumi e trucco ricercati fino al minimo particolare, e pieni di una simbologia di ispirazione buddhista, in grado cioe' di far riconoscere i personoaggi, il loro grado e carattere; discorsi (in cinese classico) ridotti all'osso, parlati ad alta voce e con toni definiti invece che naturali, in modo da spiegare con efficienza in poche parole quel poco della trama che l'azione non puo' da sola; espressioni facciali fisse: questo interessante miscuglio tra arti marziali e teatro greco classico della tragedia o commedia e' l'opera di Pechino, una delle piu' belle forme di teatro cinese, e certamente la piu' spettacolare agli occhi dei barbari stranieri, e per questo cosi' popolare.
Le storie, ambientate nella mitologia tradizionale e spesso con trame piene dei combattimenti che vengono efficacemente rappresentati dagli incredibili numeri d'acrobazia degli attori, sono un sussieguo di frenetici momenti d'azione dinamica inframezzati a pause accompagnate dalla musica, e raggiungono da subito un climax che riescono a mantenere quasi in continuazione per tutto lo spettacolo, che non puo' non affascinare.
Le sfaccettature di un paese come la cina sono molteplici e a volte
difficilmente comprensibili, e questo puo' modificare le impressioni e
l'esperienza personale dello straniero di passaggio in maniera radicale.
I cinesi passano da essere incredibilmente curiosi, affascinanti e raffinati ad
ignoranti ineducati, incapaci di vivere in modo civile, ed incredibilmente
irritanti: sono probabilmente entrambi, e non ci dovrebbe essere da stupirne,
considerandone il numero.
Fermo restando la totale attrazione che questa terra e la sua cultura esercitano
su di me, non mi lasciano certo indifferente, anzi mi fanno inbufalire alcuni
comportamenti locali.
Se un cinese e' ottuso, lo sara' in maniera a malapena immaginabile anche dai
peggiori burocrati nostrani, rifiutandosi a priori di cercare di stabilire un
dialogo e sfruttando al massimo la propria (spesso risibile) autorita'; non e'
raro ritrovarsi in situazioni del tutto surreali, in cui mi capita di parlare
in cinese con qualcuno che, dopo il primo momento di panico, spocchiosamente mi
tratta come un cane parlante, e nel frattempo si avvale della traduzione (dal
cinese al cinese...) di chiunque gli si sia fermato attorno incuriosito dalla
scena.
E spesso in effetti questi personaggi si trovano in quelloe posizioni, tanto
care alla letteratura cinese, in grado di imporre la propria autorita' su
chiunque ne sia in balia, e al contempo essere untuosi ed accomodanti su chi ha
l'autorita' o la forza per non esserne influenzato.
Al lato pratico, vieni continuamente rimproverato dagli ausiliari del traffico
se scendi un piede dal marciapiede quando passano le macchine, ma nessuno di
questi figuri si immaginerebbe mai di fermare le macchine che passano agli
incroci col rosso a tutta velocita' e clacson spianati, senza curarsi che ci
siano o meno in mezzo biciclette, pedoni, e qualunque altro mezzo che
perderebbe un contrasto fisico.
Altra bieca figura sono i gestori di servizi non essenziali, dai receptionist
degli alberghi ai gestori di internet cafe', a chiunque altro abbia l'autorita'
per importi una procedura rigorosa quanto insulsa.
Isola felice in questo sono le categorie che da noi racchiudono spesso la creme
dell'ottusita': e' impressionante l'efficienza, la buona volonta' e la cortesia
di sportellisti alle biglietterie di treni e autobus, degli impiegati delle
poste, dei camerieri nei ristoranti, anche se costretti a confrontarsi con
diavoli stranieri che biascicano sconnessamente i suoni della bella lingua
della terra di mezzo (per chi non lo sapesse: zhong=mezzo guo=terra, ovvero
cina).
Xi'an, ShangHai, l'armata di terracotta, il Bund; nomi e posti che stuzicano
certamente l'immaginazione, e che ad un occhio attento non sfuggira' come si
trovino ad una distanza enorme l'uno dall'altro.
Ecco un altro deg;i incredibili paradossi della Cina: le distanze, amplificate
fino all'inverosimile all'inteno di una nazione sconfinata, si distorcono e
riducono, fino a rendere possibile una gita fuori porta di una settimana e
circa cinquemila chilometri senza per questo perdere energia e voglia di
scoprire l'incredibile nuovo volto che questo paese ti mostra.
La grandeur cinese si riflette in ogni momento della propria storia, in ogni
mastodontica espressione culturale e sociale in grado di nullificare il singolo
essere umano di fronte alla societa', all'autorita' vigente, alla totalizzante
presenza di una cultura che abbraccia enormita' di uomini e territori.
L'armata di terracotta, uguale, ripetitiva e sterminata; piazza del popolo e la
nuova ShangHai, con gli sfolgoranti grattacieli sempre illuminati, mastodontici
ed eleganti nel contempo; piazza TianAnMen e l'enormita' dei boulevard
pechinesi: la Cina ti avvolge, ti circonda, ti coinvolge che tu lo voglia o
meno. Ma senza schiacciarti con proporzioni inumane come nelle rappresentazioni
monumentali della cultura indoeuropea, bensi' legandoti indissolubilmente
attraverso la continua riproposizione di simboli che non ti permettono di
staccarti dalle tue radici, ne' di discuterle: chi sei tu, d'atronde, per
farlo?
E' tempo di lasciare la cina. domani mattina, di buon'ora, un treno mi portera' verso le sconfinate steppe ed il misterioso deserto dei gobi, in Mongolia.
E' difficile spiegarmi che cosa sto provando nel lasciare un posto cosi' fertile per le mie impressioni, emozioni ed esperienze, e credo che il senso di distacco sia viziato dall'affascinante via di ritorno che mi attende, e dalla certezza, ora piu' che mai, che saro' di nuovo qui al piu' presto a godere delle stranezze del paese che tanto affascino' marco polo: a provare la claustrofobia da folla nella metropolitana; la genuina accoglienza degli avventori delle bettole; la frenesia dei venditori, inversamente proporzionale alla qualita' della loro merce; a mangiare ravioli al vapore, dolci uighuri traboccanti miele e noci, teste d'anatra, stelle marine fritte, stufato di cane...
Diari balcanici - Viaggio nei balcani febbraio/marzo 2006
1
Eccomi qui, appena finito di attraversare il primo di molti dei pezzetti ex iugoslavi.
Sto per lasciare ljubjana in direzione rijeka (fiume), sulle coste istriane tanto affollate di turisti in estate, da dove poi conto di arrivare a dubrovnik entro il 2 febbraio, data della festa del santo patrono locale e di tutti i festeggiamenti collegati.
Per quel che riguarda questa repubblichetta alpina dove ho svernato per un fine settimana allungato, sono stato accolto a casa della ragazza slovena di un amico francese che vive qui, e ho potuto provare l ospitalita balcanica di qui, fatta di innumerevoli porzioni di specialita locali, altrettanto innumerevoli bottiglie di vino sturate (particloarmente buono il refoshk, che altro non e che il nostro refosco friulano) e bicchieri di distillati riempiti (Devi davvero provare ancora questo, e fatto con i mirtilli, ma no che non e la stessa osa di quello di prima, vedrai... etc).
Il tempo non e granche clemente (cosi come questa dannata tastiera slovena, senza accenti...), ma tutto sommato e prevedibile se uno decide di venire da questo lato dell adriatico a febbraio.
ieri abbiamo seguito da una cittadina del lungomare (portorose, piccola dubrovnik slovena, ovviamente costruita dai veneziani) le gesta di Baghratis, il tennista cipriota in finale all australian open, insieme a 2 ragazzi greci che continuavano a chiamarlo the greek guy e reclamarne la paternita: maledetto sciovinismo ellenico.
Ci siamo pero potuti consolare del risultato (3/1 per federer) con plurime tavolette di incredibilmente buono cioccolato nero al sale, specialita locale, e un abbuffata di spiedini di seppie farcite e simil crepes alle noci, orgoglio della cucina locale.
Per quel che riguarda la gente e la citta, basta salire sul treno che dal friuli raggiunge ljubjana per rendersi conto che con gli stereotipi slavi gli sloveni hanno ben poco a che fare, e che sono decisamente piu una versione simpatica degli austriaci che serbi o croati. E come in Austria non si trova una singola carta per terra, le macchine non accelerano quando cerchi di attraversare etc etc: ho come il sospetto che queste cose mi mancheranno andando verso sud.
Giuse
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La prima impressione per chi raggiunge dubrovnik e vede i tetti rossi delle case bianche accavallate le une alle altre entro le mura, magari (tempo permettendo, come fortunatamente e' stato per me) anche il meraviglioso adriatico e le isole ricoperte di verde, il tutto illuminato dal sole, e' quasi sicuramente di grande meraviglia.
Viene voglia di fermarsi un attimo a contemplarne l'incredibile bellezza dall'alto, prima di lanciarsi all'esplorazione.
Quello che poi si e' fatto strada in me e' un pensiero diverso, che nasce forse da tutto quello che ho letto negli ultimi tempi sulla guerra di qui.
Non riesco a non pensare che l'ottobre 91, data di inizio dei bombardamenti e dell'assedio di questa incredibile citta', si sia rotto qualcosa che ha portato a galla il lato piu' oscuro dell'animo umano, e lo ha scatenatocontro tutto cio' che rappresenta la bellezza creata nei secoli dalla civilta'.
Cosi' a Dubrovnik, cosi' anche a Mostar, Sarajevo, Vukovar...
Ogni fronte ha avuto le sue distruzioni, volontarie, tese solo all'annientamento.
Non sono stati ne' i serbi, ne' tantomeno i bosniaci o i croati i colpevoli di quel che e' successo, tanto e' vero che a sarajevo, citta' multietnica come in europa non ce ne sono, simbolo di tolleranza per piu' di 600 anni, sono morte sotto le bombe persone di ogni etnia. La vera colpa va cercata nella barbarie a cui l'essere umano puo' arrivare per sete di potere, per vendetta, o per quante altre stupide ragioni. E va cercata purtroppo anche tra di noi, nell' "Europa bene" che non ha voluto capire che non era una guerra civile da lasciar sbollire, o della quale disinteressarsi perche' "tanto quelli la sono tutti uguali", ma un brutale assalto alla civilta' da parte di gruppi di criminali, che si chiamassero Milosevic, Gotovina, Arkan o in qualsiasi altro modo.
Prima di arrivare qui mi sono fermato a Rijeka, la Fiume di D'Annunzio, senza riuscire per altro a capire l'ossessione del poeta per questa citta', tanto piu' che la parte piu' bella e' quella al di la' del fiume, con il bellissimo castello di Terzatto, parte sempre rimasta in territorio yugoslavo.
In compenso ho scovato una bettola d'angiporto come quelli della mia Genova, dove mi sono ingozzato di carne alla griglia, mi sono state offerte birre a non finire, e ho cantato canzoni croate accompagante dalla fisarmonica di uno degli avventori, ovviamente senza conoscere ne' le parole ne tantomeno capire nulla, visto che il croato non lo parlo.
Giuse
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Fantastico.
Nient'altro per descrivere la due giorni di festa qui a dubrovnik: ieri messa e liberazione delle colombe di fronte alla chiesa, oggi sfilata di costumi tradizionali di tutti i villaggi del vicinato piu' qualcuno piu' lontano, tipo bosniaci e montenegrini, giusto a far notare che dopotutto davanti a Dio non sono poi cosi' nemici, seguita da messa all'aperto con folla oceanica (alla quale ho assistito dal tetto della catterdrale, facendomi passare per stampa internazionale ;-) ), ed infine processione delle reliquie di san Biagio, patrono di qui, attraverso le vie del borgo. Il tutto benedetto da un fantastico sole primaverile e dalla quasi totale mancanza di turisti stranieri.
Adesso si va verso l'attesa Bosnia, in particolare Mostar, da dove visitero' anche Medjugorie e il santuario nella roccia piu' casa dei dervisci a Blagaj.
Per ora e' tutto, a presto per le foto.
Giuse
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Oggi Mostar e' spazzata dalla bura. La temperatura e' scesa quasi di 10 gradi, anche se il sole continua a splendere sulla citta'. Ieri ho passato le ultime ore di luce della giornata a bere te rosso turco sulle rive di una sorgente che sgorga dalle rocciose pareti dell'Herzegovina, accanto alla quale c'e' una casa di dervisci, insieme al muezzin della moschea piu' vecchia della citta'. Quando uno parla di muezzin e' facile immaginarsi un vecchio arabo con la barba, ma nel mio caso si tratta in effetti di un giovane bosniaco, seppur con la barba. Abbiamo parlato a lungo di islam, della portata del messaggio di maometto, della stupidita' dell'integralismo e di come la sua posizione sia molto popolare con le ragazze. Ha 25 anni, parla perfettamente tedesco e molto bene inglese, oltre ovviamente all'arabo e al turco che ha imparato alla medresa; anche lui ha viaggiato molto, anche se non sempre di sua scelta, come quando e' emigrato in germania dopo la guerra che ha distrutto la citta'. Forse avrebbe fatto dell' altro nella vita invece che continuare la tradizione di famiglia di imam, sempre nella stessa moschea, ma aveva 12 anni quando ha visto suo padre venire ucciso da un croato, perche' viveva dal lato sbagliato del fiume. Un viaggio e' una collezione di esperienze, e anche una serie di momenti che rimangono scolpiti nella memoria: uno di questi mi e' capitato ieri pomeriggio, mentre scendevo una delle scalinate che dalla citta' vecchia vanno verso le colline, circondata da edifici diroccati. All'improvviso, nel silenzio di una fredda domenica pomeriggio, e' iniziato il richiamo alla preghiera da una delle moschee, al quale hanno presto risposto le altre, con toni di canto piu' bassi o piu' acuti a seconda della distanza. In lontananza, il campanile della cattedrale cattolica dall'altro lato della citta' batteva i rintocchi dell'ora. L'arrivo a Medjugorie e' una starna esperienza: uno si immagina che sia un paese molto legato al famoso pellegrinaggio verso la statua della madonna che appari' a 6 ragazzi di qui; quello che non si immagina sono le file ininterrotte di negozi di paccottiglia per credenti che intasano l'intero paese, lasciando a malapena spazio per un paio di fruttivendoli e qualche ristorante per turisti. La salita pero' ripaga della prima delusione, e ti porta in cima ad un colle pietroso, punteggiato da bassi alberi mediterranei, in un paesaggio che ricorda quello della grecia continentale: credo che una persona di fede che si reca qui portandoci i propri dolori o problemi possa veramente trovare conforto per il proprio spirito da un posto del genere, al di la' dei miracoli veri o presunti che vi accadono. E' triste pensare come questo sia potuto diventare una legittimazione per la mercificazione collegata, e ancor peggio sia stato l'alibi per giustificare in nome di una diversita' etnica e religiosa atti barbari e brutali come quelli della guerra di qui. Triste anche pensare che nessuno con l'autorita' di dirlo ha mai pensato di far notare che la religione e la fede sono una cosa, la politica e la violenza un'altra, e che per esempio la croce eretta sull'altura che sovrasta la parte croata di Mostar, nello stesso punto dove era appostata la contraerea croata che in mancanza di bersagli in cielo causa no-fly zone e' stata puntata verso le case ed i civili della parte musulmana, forse non e' poi cosi' tanto un simbolo di pace. Stasera mi aspetta Sarajevo, forse la tappa che piu' aspettavo. A voi invece ecco qualche foto: scusate se la qualita' non e' altissima, rimediero' al ritorno a farvele vedere meglio. Giuse
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C'e' una lista di posti che hanno sempre stimolato la mia immaginazione, e dei quali basta il nome per farmi venire voglia di viaggiare: Samarcanda, San Pietroburgo, Pyongjang, Vladivostok, Alma Ata, Teheran, Santiago: il rischio e' sempre quello di rimanerne delusi quando finalmente li si raggiunge. Sarajevo era parte di questa lista, e sono felice di poter dire che ha sodisfattole mie aspettative.
In effetti l'intera Bosnia e'una nazione sorprendente, ricca di magnifici paesaggi, belle cittadine e gente amichevole. E' un crogiolo di culture ed etnie diverse, ma che mantiene una sua specifica identita' senza che nessuna di queste prevalga chiaramente sulle altre. E questo nonostante la Guerra e le tensioni che ancora si porta dietro.
Ascoltare il richiamo alla preghiera dal minareto di una moschea e contemporaneamente le campane di una chiesa che suonano poco lontano e' un'esperienza piuttosto forte ed unica, specialmente in un freddo e soleggiato mattino invernale, con quasi nessuono attorno ad eccezione delle sempre presenti vecchiette con la testa coperta da foulard, nel piu'classico stile del mediterraneo.
Non ha forse piu' senso parlare di guerra qui, di quanto possa essere stata brutale,del contrasto tra la capacita' creativa dell'uomo e la sua barbara vena distruttiva.
Qui tutto questo non ha piu' senso.
Le storie di sofferenza sono nella mente di tutti, gli edifici diroccati davanti agli occhi (qui meno che a Mostar), e la vita ha gia'ripreso il suo corso: la ricostruzione ha gia' da un pezzo iniziato il suo corso, la crescita economica c'e' e si fa sentire, la civilta' e' sempre stata di casa da queste parti, e non sono bastati i cannoni ad allontanarla.
Non c'e' davvero bisogno di rimarcare cio'che e' fin troppo ovvio.
Bascciarscia e' un nome affascinante: anche a chi non l'ha mai sentito prima suona di Mosca e Istanbul insieme. Passeggiare per le sue strade tra le botteghe dei ramaioli, costeggiare il bazar coperto o una delle moschee, ed immediatamente dopo passare in una larga via pedonale viennese, sedersi in un caffe' a bere un caffe' bosniaco (che poi e' uguale a quello turco, greco, armeno, serbo, etc.) eriempirsi lo stomaco di carne alla griglia il cui sapore ti fa capire immediatamente di provenire da un animale vero, altro che allevamenti biologici e altre vaccate. Ecco un breve sommario di quello che questo posto ti puo'offrire. Chissa', potrei anche tornare presto da queste parti.
L'humor serbo ha tinte noir. Descrive con leggerezza di due vecchi che si passano il pane come un pallone da rugby per fuggire l'assalto della folla ancora in coda (1999); gli abitanti di un villaggio che protestano, visto che sono altrettanto se non piu' importanti dei loro vicini, ma gli americani li hanno snobbati e non gli hanno lanciato nemmeno una bomba; parla di come si abbia rispetto per le tradizioni, e quindi di come a nessuna generazione, nemmeno alle prossime due, manchi la nonna che racconta le storie della coda alle 4 del mattino per il latte o per il pane. E con la stessa leggerezza ti dicono che si, ogni straniero che arriva qui si meraviglia di come siano civili, moderni, puliti ed amichevoli, ma che dover affrontare una guerra in media ogni vent'anni rende particolarmente difficile mantenere questa immagine. Forse anche loro hanno diritto a qualche anno di pace.
La stampa internazionale ai tempi della guerra in Kosovo (1999, regione di origine dello stato serbo, e che tra l'altro e' ricca di miniere e petrolio, questo giusto per spiegare come mai agli USA sta tanto a cuore la causa albanese) si riferiva alla Serbia con il termine Mordor. L'ignoranza ed il pregiudizio d'altronde sono tra loro buoni compagni di viaggio.
Giuse
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Scende la neve, bagna le strade ed inbianca i tetti di Belgrado.
La citta' bianca (questo vuol dire il suo nome) tiene fede al suo nome giusto oggi: nella norma e' di un monocrono grigio-unione sovietica.
Hladno (freddo), mi viene da dire ad un vecchio che guarda un po' il punto dove la verde acqua della Sava si getta placidamente nel torbido Danubio, e un po' il ragazzo evidentemente straniero che scatta foto, che poi sarei io. Zima (inverno) mi risponde accennando un sorriso: come a dire, che diavolo ti aspettavi da Belgrado a febbraio.
E invece, gia' stamattina un bel sole primaverile scalda la citta', che cosi' sembra quasi bella, e cosi' mi godo una giornata a vagare per parchi e viali, dopo aver visto il museo di quel genio di qui che giocava con la corrente, Nikola Tesla, e le sue invenzioni degne del miglior film su frankenstein, sprigionanti fulmini e scintille.
E' bello incontrare qualcuno che conosci bene e che non vedi da tempo: cosi' e' stato per me a Novi Sad , dove ho potuto rincontrare due amiche che hanno studiato con me in Grecia, e che mi hanno ospitato da loro. A soffrirne e' stata la mia tabella di viaggio, che nulla a potuto di fronte all'offerta di un'altra cena casereccia, e dalla quale e' stata di conseguenza depennata la tappa che mi voleva a Novi Pazar, nel sud della Serbia. Pazienza, e' il bello del viaggo.
Giuse
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Dal crollo di realta' alle quali siamo assuefatti emergono l'ignoranza e la pochezza delle nostre conoscenze.
Mi sono reso conto di questo paragonando il punto di vista ed i commenti della gente qui con quelli che mi era capitato di ascoltare nel caucaso. La maggior parte della gente che ha vissuto nell'unione sovietica o nella yugoslavia prova un certo senso di nostalgia per il passato, quando erano parte di una grossa e forte nazione, ma oggi come allora non ha in realta' idea di chi siano gli "altri" con cui condivideva la stessa bandiera. E cosi' trovi i croati, barvi e gentili, che si mettono a parlare con te, sono curiosi di conoscere che cosa ne pensi di loro e come funziona la tua vita a casa, ma che ti dicono di stare attenti ai serbi, che non sono come noi, sono brutta gente, d'altronde tutti sanno cosa hanno fatto nella guerra. Poi attraversi la frontiera, magari incontri un bosniaco musulmano, che ti sorride, ti invita a bere un te' insieme e ti descrive le molte bellezze della sua terra e della sua cultura, ma che poi finisce sottolineando quanto siano stati brutali i croati nel cercare di distruggela. E cosi' via, in serbia, la gente ti accoglie a braccia aperte, e' ospitale e cortese, curiosa, vuole farti vedere che nella loro terra la storia nel senso europeo del termine, come civilta' organizzata e unita, esiste da sempre, che sono un grande popolo come te. Ma non come i montenegrini, che sono solo brutali pastori di montagna e banditi, e nemmeno come gli albanesi, che sono entrati nella culla della loro civilta', il kosovo, e l'hanno distrutta per colpa della loro primitiva rozzezza e della loro incapacita' di vivere in pace con gli altri. E in montenegro vedrai sempre le stesse persone ospitali, magari con visi leggermente diversi, forse con corporature leggermente piu' massicce rispetto ai longilinei belgradesi, ti accoglieranno con sorriso alla loro njokada (parola che non mi e' proprio riuscito di tradurre...) di carnevale, riempiendoti il piatto di cibo e il bicchiere del loro ottimo vino ,e li sentirai raccomandarti di non andare oltre il confine albanese, perche' di la' c'e' brutta gente, meglio evitarli.
Mi e' venuta in mente una vecchia signora georgiana, che sicuramente ha vissuto la maggior parte della propria vita sotto la falce e martello, che ha iniziato a farsi il segno della croce e ha continuato per tutto il tempo che il treno destinato nel musulmano azerbaijan ha impiegato per oltrepassare il confine. Ma la stessa signora non si rivolgeva all'olivastro capotreno del baku express in russo chiamandolo tovarish fino a 15 anni fa?
In realta' il nostro mondo e' piccolo e limitato, e allargarne gli orizzonti richiede una fatica che in pochi sono disposti ad affrontare.
Un altro colpo di fortuna: sono arrivato a Kotor, la veneziana Cattaro, giusto in tempo per il carnevale. In piu' la boka kotorska, la baia che si incunea da qui fino all'adriatico oltreche' il piu' lungo fiordo al mondo (eh si, anch'io sono rimasto sorpreso scoprendo che i vichinghi non c'entrano...) e' stato immerso in un bellissimo sole primaverile per tutta la giornata. Tra l'altro, seguendo un suggerimento particolarmente appropriato, mi sono riempito lo stomaco con della deliziosa e freschissima aragosta, pagandola una miseria: ringrazio chi di dovere.
Nelle foto che mostrero' al ritorno mancheranno larghe parti di belgrado ed il castello di golubac lungo il danubio sommerso dalla neve: purtroppo mi hanno rubato lo zaino con le macchine fotografiche, tra l'altro l'unica volta che le avevo tutte 3 con me, e purtroppo le memory card in questione non erano ancora state copiate nel disco. Spero vi accontenterete di una sommaria descrizione, semmai provero' a farne uno schizzo a matita.
Giuse
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Prima di tutto: a tutti i miei fans interessera' sapere che ho appena trovato una zenith (macchina fotografica russa) con annessa fantastica lente a 15 euro. grazie Tirana. Tra l'altro si e' aggiunta l'impagabile soddisfazione di effettuare contrattazione ed acquisto nel bagagliaio di una macchina. Inpagabile.
Il carnevale a Kotor ha mantenuto le attese, e da buona citta' veneziana la sfilata ha proposto maschere elaborate ed affascinanti a volonta'. Lascio il montenegro soddisfatto di quello che ho visto, e piuttosto deciso a farne prossimamente un luogo per le mie vacanze estive. Unica pecca e' l'attitudine di questa gente di lamentarsi troppo di qualunque cosa, dalle condizioni di vita alle scarse possibilita' offerte per fare il grande balzo, agli abitanti dei paesi vicini, che chissa' come mai, sono sempre gente di cui si dovrebbe far meglio a guardarsi, pronti a balzarti alla schiena appena possibile. Convinzione questa comune a tutti i popoli da me incontrati finora.
L'arrivo in albania, oltre a costituire uno shock culturale non indifferente, mi ha permesso di ricordare che in effetti c'e' gente che avrebbe ben piu' diritto di lamentarsi degli ex yugoslavi. Li' il tenore di vita e le condizioni economiche erano quasi ovunque ad un livello paragonabile con quello dell'europa occidentale, caso unico nel blocco comunista, e la guerra, pur con le sue evidenti cicatrici, non ha radicalmente cambiato il livello culturale ed il tenore di vita. Ma qui in Albania la miseria e' purtroppo sempre stata di casa, anche grazie a noi italiani, e 50 anni di comunismo non hanno potuto che peggiorare le cose.
La baraccopoli fuori Scutari non ha nulla da invidiare alle favelas sudamericane, e Tirana e' per larghi tratti sprovvista di strade asfaltate anche nel centro. E' quasi impossibile dare un'idea di quanto povera possa essere questa terra, nonostante la sua posizione geografica sia favorevole, nonostante l'incantevole bellezza della sua campagna e dei suoi monti senza menzionare il litorale adriatico, che come in Croazia, Montenegro e Grecia offre alcuni dei piu' bei paesaggi marini al mondo.
L'hotel dove ho passato la notte a Scutari si affaccia sulla piazza centrale, e' decisamente il migliore della citta', e ciononostante ho pagato una camera 4 euro, l'elettricita' d'inverno e' disponibile solo qualche ora verso sera, e nemmeno l'acqua esce tutta la giornata dal rubinetto. Posso solo immaginare cosa voglia dire vivere in una casa fuori dal centro.
Ciononostante sia Scutari sia Tirana sono citta' vitali, con traffico allucinante e mercati di strada sempre affollati di persone intente a negoziare, guardare e valutare qualsiasi cosa sia in vendita.
Dare un'occhiata qui aiuta decisamente a guardare sotto un'altra luce gli albanesi che decidono che tutto sommato 75 km (3 ore sul piu' lento gommone) non siano troppe per provare a vivere da noi una vita diversa. E qui non ho ancora sentito nessuna delle persone con cui ho parlato lamentarsi di quanto siano terribili le loro condizioni di vita.
Giuse
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Le nuvole basse non permettono da qui di vedere la sponda albanese del lago di Ohrid, ma aggiungono fascino al monastero ortodosso che sorge a picco su una scogliera sulla riva, diviso dal resto della citta' macedone che porta il nome del lago da una bella foresta di conifere. La Macedonia qui e' un ritorno ad occidente, alle strade ben pavimentate, alle vie di negozi, ai caffe' di design. C'e' poco traffico, molte strade sono chiuse alle auto, e la citta' vecchia, con le case in legno con le verande dal sapore turco aggettanti ai primi piani, ha strade progettate ben prima dell'invenzione delle auto. L'intera sezione della costa macedone del lago, piu' la citta' vecchia con le sue decine di chiese ortodosse e' giustamente tutelata dall'Unesco. Quello che mi chiedo e' come e' possibile che l'altra costa di questo lago, che e' uno di tre piu' antichi al mondo insieme al Bajkal (Siberia) ed al Titikaka ( Peru'), non sia altrettanto meritevole di tutela, e quindi siano tollerati gli abusi edilizi che devastano il litorale albanese, e l'incredibile quantita' di spazzatura che ne punteggia il lungolago. Senza perdermi nella discussione storica tanto cara ai greci sulla legittimita' o meno di questa gente di usare il nome Macedonia, arrivando qui e' impossibile bnon constatare che questa gente ha una storia unitaria che dura da parecchi secoli, e di cui vanno giustamente fieri. Ripensarndo a come mi veniva presentata la Yugoslavia a scuola , come blocco omogeneo, con una capitale, altre importanti citta', ma senza entrare nei dettagli delle diverse popolazioni che la conponevano, mi viene da pensare che probabilmente in media conosciamo poco anche dei posti vicini a noi. L'Albania e' una succursale italiana. La segnaletica stradale e' fatta dalla stessa ditta che produce la nostra, usando la stessa grafica, per cui le strade principali interurbane sembrano esattamente le nostre statali. I nuovi edifici che vengono eretti un po' ovunque (e spesso senza piani regolatori) dentro e fuori le citta' assomigliano all'edilizia che fa bella mostra di se' nei paesi della provincia lungo tutta la pianura padana e nei lungomare dell'adriatico: finti marmi, linoleum, enormi vetrate, colori sgargianti. Trionfo del kitsch. E se non bastasse, ovunque svettano insegne italiane: di ditte nostrane che si sono stabilite qui per ragioni economiche; di prodotti italiani di qualunque tipo, che qui sono il simbolo dell'alta qualita' e del benessere; e anche semplici insegne come "non parcheggiare", "vietato l'accesso", "attenti al cane", "zona industriale" che qualche intraprendente si e' portato a casa al ritorno dal nostro belpaese. Considerando che l'Albania noi (anche se sotto lo zio Benito) l'abbiamo colonizzata, lasciando peraltro profonde tracce nella popolazione locale (ad esempio la dimestichezza con la lingua, che qui parlano tutti) e tracce decisamente meno profonde nello sviluppo economico, dovremmo forse smettere di pararci dietro "quello era il fascismo, noi italiani siamo brava gente" e aiutare a risolvere i casini che abbiamo lasciato in eredita' in giro a questa gente (per un altro esempio a proposito date un occhiata alle notizie riguardo al casino che sta succedendo in Somalia di questi giorni). Giuse
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La storia yugoslava e' storia di fiumi. Il torbido Vardar, che scorre lento attraverso il centro di Skopje, segna anche il confine tra due mondi: quello moderno, caratterizzato dalle larghe piazze e dai larghi viali dell'urbanistica razionalista dei tempi di Tito, e quello rimasto ad un secolo fa, delle vie ciottolate e strette, delle mille botteghe artigiane lungo la strada e dei fatiscenti cortili interni agli edifici, del bazaar coperto dove puoi davvero trovare qualunque cosa, e dove la minoranza albanese che vive ed ha sempre vissuto da queste parti continua a far sentire la sua lingua ovunque, ed a rispondere al richiamo alla preghiera dei muezzin dalle moschee: "venite a pregare, venite a salvarvi".
Le due componenti, come in tutti i balcani ad esclusione della Sarajevo d'anteguerra, non si integrano se non per approfittare dei piu' ovvi vantaggi dell'altra parte, ad esempio i prezzi decisamente piu' bassi al mercato della ciarscia (citta' vecchia) albanese, o gli onnipresenti internet cafe' e negozi di marche occidentali della parte macedone.
L'alta collina che sovrasta il centro, cioe' la parte macedone, e' diventata un'altra delle "montagne della croce", che sono sorte da tutte le parti in Macedonia, ovvero alture sovrastate da (brutte) croci metalliche di gigantesche proporzioni che vengono illuminate nel cielo notturno, e permettono anche di avere una bella vista sulle vallate sottostanti grazie alla terrazza sul braccio orizzontale. Un'altra croce del genere l'ho vista a Mostar, sul colle dominante la parte croata della citta', e da dove la contraerea croata, in mancanza di bersagli in aria grazie alla no fly zone NATO, bersagliava gli edifici della sponda musulmana.
La campagna macedone e' ricca di colori, ma tra questi manca il verde scuro che siamo abituati a vedere da noi. La terra rigurgita argilla, e si colora di ocra e porpora, Gli alberi svettano con i loro tronchi scuri coperti anche in inverno di foglie di un rosso sanguigno che contrasta vivamente con gli arbusti di sottobosco ricoperti di muschi verde chiarissimo, e la vite, onnipresente in qualunque spiano, disegna lunghi filari facendo del terreno una scacchiera. Non e' difficile immaginarsi Alessandro Magno che dalle tende di un suo accampamento beve un bicchiere di Vranec (varieta' di vino eccellente quanto sconosciuta nell'Europa occidentale, che viene preparata solo con gli zuccheri naturali gia' presenti nella dolce uva locale) guardandosi attorno soddisfatto.
O forse non cosi' tanto soddisfatto, se potesse vedere adesso ilsuo popolo di valenti guerrieri e abili montanari, con cui ha conquistato uno degli imperi piu' grandi della storia: la prima impressione e' di avere a che fare con dei simpatici ed un po' apatici campagnoli, che non hanno nessuno dei caratteri estremi che, nel bene o nel male, contraddistinguono gli altri loro ex connazionali o gli albanesi.
Domani attraversero' l'ultima frontiera del mio viaggio, seguendo la valle della strumacka lungo i 40 km che ancora mi separano dalla Bulgaria.
Giuse
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Dalla frontiera con la Grecia e la Macedonia, delicato confine attraverso il quale passa una delle principali direttive dei traffici illeciti di cose e persone diretto all'Europa occidentale, inizia la parte bulgara della nuova strada che l'Unione Europea ha fortemente voluto per collegare degnamente via terra la Grecia con il resto dell'unione, o almeno cosi' sara' dal prossimo gennaio quando qui iniziera' a sventolare bandiera a 12 stelle.
Tagliando dritto verso nord le propaggini orientali dei balcani, sfiora a meta' del percorso uno dei piu' bei monasteri al mondo, incastonato nella stupenda valle del Rila, da cui prende il nome. Il cortile interno, dalla leggerezza di una casa veneziana con i ballatoi decorati da arcate di legno, fa da cornice ad una chiesa ortodossa decorata da multicolori icone, e sovrastata da quattro cupole d'oro e piombo. Con le montagne coperte da fitte foreste di abeti a fare da cornice, questo e' sicuramente uno dei posti piu' belli che mi sia capitato di vedere.
L'autobus diretto a Sofia si impanna due volte, a causa della neve che entra nel motore bloccandolo. Anche all'arrivo fiocchi grossi come palline da ping pong ti si attaccano addosso, ricoprendo tutto e tutti di bianco. Ma al risveglio un sole brillante saluta il mio ultimo giorno di viaggio, illuminando la citta', ancora bianca e scintillante. E' piacevole aggirarsi per i larghi viali del centro, ed imbattersi in monumentali chiese che ti fanno ricordare che la madre russia e' vicina, in mercati di strada dove oggi il prodotto piu' in voga sono pezzi di stoffa bianchi e rossi in qualunque forma, che tutti i locali esibiscono addosso in vista delle celebrazioni di dopodomani per la festa nazionale. Stasera la mia ultima notte sara' nei saloni dell'aeroporto, aspettando il check in, che qualche sadico sicuramente afflitto da nostalgia dei tempi di Dimitrov e Zhivkov e della stella rossa sugli edifici ha fissato alle 4 del mattino.
Eccomi qui, appena finito di attraversare il primo di molti dei pezzetti ex iugoslavi.
Sto per lasciare ljubjana in direzione rijeka (fiume), sulle coste istriane tanto affollate di turisti in estate, da dove poi conto di arrivare a dubrovnik entro il 2 febbraio, data della festa del santo patrono locale e di tutti i festeggiamenti collegati.
Per quel che riguarda questa repubblichetta alpina dove ho svernato per un fine settimana allungato, sono stato accolto a casa della ragazza slovena di un amico francese che vive qui, e ho potuto provare l ospitalita balcanica di qui, fatta di innumerevoli porzioni di specialita locali, altrettanto innumerevoli bottiglie di vino sturate (particloarmente buono il refoshk, che altro non e che il nostro refosco friulano) e bicchieri di distillati riempiti (Devi davvero provare ancora questo, e fatto con i mirtilli, ma no che non e la stessa osa di quello di prima, vedrai... etc).
Il tempo non e granche clemente (cosi come questa dannata tastiera slovena, senza accenti...), ma tutto sommato e prevedibile se uno decide di venire da questo lato dell adriatico a febbraio.
ieri abbiamo seguito da una cittadina del lungomare (portorose, piccola dubrovnik slovena, ovviamente costruita dai veneziani) le gesta di Baghratis, il tennista cipriota in finale all australian open, insieme a 2 ragazzi greci che continuavano a chiamarlo the greek guy e reclamarne la paternita: maledetto sciovinismo ellenico.
Ci siamo pero potuti consolare del risultato (3/1 per federer) con plurime tavolette di incredibilmente buono cioccolato nero al sale, specialita locale, e un abbuffata di spiedini di seppie farcite e simil crepes alle noci, orgoglio della cucina locale.
Per quel che riguarda la gente e la citta, basta salire sul treno che dal friuli raggiunge ljubjana per rendersi conto che con gli stereotipi slavi gli sloveni hanno ben poco a che fare, e che sono decisamente piu una versione simpatica degli austriaci che serbi o croati. E come in Austria non si trova una singola carta per terra, le macchine non accelerano quando cerchi di attraversare etc etc: ho come il sospetto che queste cose mi mancheranno andando verso sud.
Giuse
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La prima impressione per chi raggiunge dubrovnik e vede i tetti rossi delle case bianche accavallate le une alle altre entro le mura, magari (tempo permettendo, come fortunatamente e' stato per me) anche il meraviglioso adriatico e le isole ricoperte di verde, il tutto illuminato dal sole, e' quasi sicuramente di grande meraviglia.
Viene voglia di fermarsi un attimo a contemplarne l'incredibile bellezza dall'alto, prima di lanciarsi all'esplorazione.
Quello che poi si e' fatto strada in me e' un pensiero diverso, che nasce forse da tutto quello che ho letto negli ultimi tempi sulla guerra di qui.
Non riesco a non pensare che l'ottobre 91, data di inizio dei bombardamenti e dell'assedio di questa incredibile citta', si sia rotto qualcosa che ha portato a galla il lato piu' oscuro dell'animo umano, e lo ha scatenatocontro tutto cio' che rappresenta la bellezza creata nei secoli dalla civilta'.
Cosi' a Dubrovnik, cosi' anche a Mostar, Sarajevo, Vukovar...
Ogni fronte ha avuto le sue distruzioni, volontarie, tese solo all'annientamento.
Non sono stati ne' i serbi, ne' tantomeno i bosniaci o i croati i colpevoli di quel che e' successo, tanto e' vero che a sarajevo, citta' multietnica come in europa non ce ne sono, simbolo di tolleranza per piu' di 600 anni, sono morte sotto le bombe persone di ogni etnia. La vera colpa va cercata nella barbarie a cui l'essere umano puo' arrivare per sete di potere, per vendetta, o per quante altre stupide ragioni. E va cercata purtroppo anche tra di noi, nell' "Europa bene" che non ha voluto capire che non era una guerra civile da lasciar sbollire, o della quale disinteressarsi perche' "tanto quelli la sono tutti uguali", ma un brutale assalto alla civilta' da parte di gruppi di criminali, che si chiamassero Milosevic, Gotovina, Arkan o in qualsiasi altro modo.
Prima di arrivare qui mi sono fermato a Rijeka, la Fiume di D'Annunzio, senza riuscire per altro a capire l'ossessione del poeta per questa citta', tanto piu' che la parte piu' bella e' quella al di la' del fiume, con il bellissimo castello di Terzatto, parte sempre rimasta in territorio yugoslavo.
In compenso ho scovato una bettola d'angiporto come quelli della mia Genova, dove mi sono ingozzato di carne alla griglia, mi sono state offerte birre a non finire, e ho cantato canzoni croate accompagante dalla fisarmonica di uno degli avventori, ovviamente senza conoscere ne' le parole ne tantomeno capire nulla, visto che il croato non lo parlo.
Giuse
3
Fantastico.
Nient'altro per descrivere la due giorni di festa qui a dubrovnik: ieri messa e liberazione delle colombe di fronte alla chiesa, oggi sfilata di costumi tradizionali di tutti i villaggi del vicinato piu' qualcuno piu' lontano, tipo bosniaci e montenegrini, giusto a far notare che dopotutto davanti a Dio non sono poi cosi' nemici, seguita da messa all'aperto con folla oceanica (alla quale ho assistito dal tetto della catterdrale, facendomi passare per stampa internazionale ;-) ), ed infine processione delle reliquie di san Biagio, patrono di qui, attraverso le vie del borgo. Il tutto benedetto da un fantastico sole primaverile e dalla quasi totale mancanza di turisti stranieri.
Adesso si va verso l'attesa Bosnia, in particolare Mostar, da dove visitero' anche Medjugorie e il santuario nella roccia piu' casa dei dervisci a Blagaj.
Per ora e' tutto, a presto per le foto.
Giuse
4
Oggi Mostar e' spazzata dalla bura. La temperatura e' scesa quasi di 10 gradi, anche se il sole continua a splendere sulla citta'. Ieri ho passato le ultime ore di luce della giornata a bere te rosso turco sulle rive di una sorgente che sgorga dalle rocciose pareti dell'Herzegovina, accanto alla quale c'e' una casa di dervisci, insieme al muezzin della moschea piu' vecchia della citta'. Quando uno parla di muezzin e' facile immaginarsi un vecchio arabo con la barba, ma nel mio caso si tratta in effetti di un giovane bosniaco, seppur con la barba. Abbiamo parlato a lungo di islam, della portata del messaggio di maometto, della stupidita' dell'integralismo e di come la sua posizione sia molto popolare con le ragazze. Ha 25 anni, parla perfettamente tedesco e molto bene inglese, oltre ovviamente all'arabo e al turco che ha imparato alla medresa; anche lui ha viaggiato molto, anche se non sempre di sua scelta, come quando e' emigrato in germania dopo la guerra che ha distrutto la citta'. Forse avrebbe fatto dell' altro nella vita invece che continuare la tradizione di famiglia di imam, sempre nella stessa moschea, ma aveva 12 anni quando ha visto suo padre venire ucciso da un croato, perche' viveva dal lato sbagliato del fiume. Un viaggio e' una collezione di esperienze, e anche una serie di momenti che rimangono scolpiti nella memoria: uno di questi mi e' capitato ieri pomeriggio, mentre scendevo una delle scalinate che dalla citta' vecchia vanno verso le colline, circondata da edifici diroccati. All'improvviso, nel silenzio di una fredda domenica pomeriggio, e' iniziato il richiamo alla preghiera da una delle moschee, al quale hanno presto risposto le altre, con toni di canto piu' bassi o piu' acuti a seconda della distanza. In lontananza, il campanile della cattedrale cattolica dall'altro lato della citta' batteva i rintocchi dell'ora. L'arrivo a Medjugorie e' una starna esperienza: uno si immagina che sia un paese molto legato al famoso pellegrinaggio verso la statua della madonna che appari' a 6 ragazzi di qui; quello che non si immagina sono le file ininterrotte di negozi di paccottiglia per credenti che intasano l'intero paese, lasciando a malapena spazio per un paio di fruttivendoli e qualche ristorante per turisti. La salita pero' ripaga della prima delusione, e ti porta in cima ad un colle pietroso, punteggiato da bassi alberi mediterranei, in un paesaggio che ricorda quello della grecia continentale: credo che una persona di fede che si reca qui portandoci i propri dolori o problemi possa veramente trovare conforto per il proprio spirito da un posto del genere, al di la' dei miracoli veri o presunti che vi accadono. E' triste pensare come questo sia potuto diventare una legittimazione per la mercificazione collegata, e ancor peggio sia stato l'alibi per giustificare in nome di una diversita' etnica e religiosa atti barbari e brutali come quelli della guerra di qui. Triste anche pensare che nessuno con l'autorita' di dirlo ha mai pensato di far notare che la religione e la fede sono una cosa, la politica e la violenza un'altra, e che per esempio la croce eretta sull'altura che sovrasta la parte croata di Mostar, nello stesso punto dove era appostata la contraerea croata che in mancanza di bersagli in cielo causa no-fly zone e' stata puntata verso le case ed i civili della parte musulmana, forse non e' poi cosi' tanto un simbolo di pace. Stasera mi aspetta Sarajevo, forse la tappa che piu' aspettavo. A voi invece ecco qualche foto: scusate se la qualita' non e' altissima, rimediero' al ritorno a farvele vedere meglio. Giuse
5
C'e' una lista di posti che hanno sempre stimolato la mia immaginazione, e dei quali basta il nome per farmi venire voglia di viaggiare: Samarcanda, San Pietroburgo, Pyongjang, Vladivostok, Alma Ata, Teheran, Santiago: il rischio e' sempre quello di rimanerne delusi quando finalmente li si raggiunge. Sarajevo era parte di questa lista, e sono felice di poter dire che ha sodisfattole mie aspettative.
In effetti l'intera Bosnia e'una nazione sorprendente, ricca di magnifici paesaggi, belle cittadine e gente amichevole. E' un crogiolo di culture ed etnie diverse, ma che mantiene una sua specifica identita' senza che nessuna di queste prevalga chiaramente sulle altre. E questo nonostante la Guerra e le tensioni che ancora si porta dietro.
Ascoltare il richiamo alla preghiera dal minareto di una moschea e contemporaneamente le campane di una chiesa che suonano poco lontano e' un'esperienza piuttosto forte ed unica, specialmente in un freddo e soleggiato mattino invernale, con quasi nessuono attorno ad eccezione delle sempre presenti vecchiette con la testa coperta da foulard, nel piu'classico stile del mediterraneo.
Non ha forse piu' senso parlare di guerra qui, di quanto possa essere stata brutale,del contrasto tra la capacita' creativa dell'uomo e la sua barbara vena distruttiva.
Qui tutto questo non ha piu' senso.
Le storie di sofferenza sono nella mente di tutti, gli edifici diroccati davanti agli occhi (qui meno che a Mostar), e la vita ha gia'ripreso il suo corso: la ricostruzione ha gia' da un pezzo iniziato il suo corso, la crescita economica c'e' e si fa sentire, la civilta' e' sempre stata di casa da queste parti, e non sono bastati i cannoni ad allontanarla.
Non c'e' davvero bisogno di rimarcare cio'che e' fin troppo ovvio.
Bascciarscia e' un nome affascinante: anche a chi non l'ha mai sentito prima suona di Mosca e Istanbul insieme. Passeggiare per le sue strade tra le botteghe dei ramaioli, costeggiare il bazar coperto o una delle moschee, ed immediatamente dopo passare in una larga via pedonale viennese, sedersi in un caffe' a bere un caffe' bosniaco (che poi e' uguale a quello turco, greco, armeno, serbo, etc.) eriempirsi lo stomaco di carne alla griglia il cui sapore ti fa capire immediatamente di provenire da un animale vero, altro che allevamenti biologici e altre vaccate. Ecco un breve sommario di quello che questo posto ti puo'offrire. Chissa', potrei anche tornare presto da queste parti.
L'humor serbo ha tinte noir. Descrive con leggerezza di due vecchi che si passano il pane come un pallone da rugby per fuggire l'assalto della folla ancora in coda (1999); gli abitanti di un villaggio che protestano, visto che sono altrettanto se non piu' importanti dei loro vicini, ma gli americani li hanno snobbati e non gli hanno lanciato nemmeno una bomba; parla di come si abbia rispetto per le tradizioni, e quindi di come a nessuna generazione, nemmeno alle prossime due, manchi la nonna che racconta le storie della coda alle 4 del mattino per il latte o per il pane. E con la stessa leggerezza ti dicono che si, ogni straniero che arriva qui si meraviglia di come siano civili, moderni, puliti ed amichevoli, ma che dover affrontare una guerra in media ogni vent'anni rende particolarmente difficile mantenere questa immagine. Forse anche loro hanno diritto a qualche anno di pace.
La stampa internazionale ai tempi della guerra in Kosovo (1999, regione di origine dello stato serbo, e che tra l'altro e' ricca di miniere e petrolio, questo giusto per spiegare come mai agli USA sta tanto a cuore la causa albanese) si riferiva alla Serbia con il termine Mordor. L'ignoranza ed il pregiudizio d'altronde sono tra loro buoni compagni di viaggio.
Giuse
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Scende la neve, bagna le strade ed inbianca i tetti di Belgrado.
La citta' bianca (questo vuol dire il suo nome) tiene fede al suo nome giusto oggi: nella norma e' di un monocrono grigio-unione sovietica.
Hladno (freddo), mi viene da dire ad un vecchio che guarda un po' il punto dove la verde acqua della Sava si getta placidamente nel torbido Danubio, e un po' il ragazzo evidentemente straniero che scatta foto, che poi sarei io. Zima (inverno) mi risponde accennando un sorriso: come a dire, che diavolo ti aspettavi da Belgrado a febbraio.
E invece, gia' stamattina un bel sole primaverile scalda la citta', che cosi' sembra quasi bella, e cosi' mi godo una giornata a vagare per parchi e viali, dopo aver visto il museo di quel genio di qui che giocava con la corrente, Nikola Tesla, e le sue invenzioni degne del miglior film su frankenstein, sprigionanti fulmini e scintille.
E' bello incontrare qualcuno che conosci bene e che non vedi da tempo: cosi' e' stato per me a Novi Sad , dove ho potuto rincontrare due amiche che hanno studiato con me in Grecia, e che mi hanno ospitato da loro. A soffrirne e' stata la mia tabella di viaggio, che nulla a potuto di fronte all'offerta di un'altra cena casereccia, e dalla quale e' stata di conseguenza depennata la tappa che mi voleva a Novi Pazar, nel sud della Serbia. Pazienza, e' il bello del viaggo.
Giuse
7
Dal crollo di realta' alle quali siamo assuefatti emergono l'ignoranza e la pochezza delle nostre conoscenze.
Mi sono reso conto di questo paragonando il punto di vista ed i commenti della gente qui con quelli che mi era capitato di ascoltare nel caucaso. La maggior parte della gente che ha vissuto nell'unione sovietica o nella yugoslavia prova un certo senso di nostalgia per il passato, quando erano parte di una grossa e forte nazione, ma oggi come allora non ha in realta' idea di chi siano gli "altri" con cui condivideva la stessa bandiera. E cosi' trovi i croati, barvi e gentili, che si mettono a parlare con te, sono curiosi di conoscere che cosa ne pensi di loro e come funziona la tua vita a casa, ma che ti dicono di stare attenti ai serbi, che non sono come noi, sono brutta gente, d'altronde tutti sanno cosa hanno fatto nella guerra. Poi attraversi la frontiera, magari incontri un bosniaco musulmano, che ti sorride, ti invita a bere un te' insieme e ti descrive le molte bellezze della sua terra e della sua cultura, ma che poi finisce sottolineando quanto siano stati brutali i croati nel cercare di distruggela. E cosi' via, in serbia, la gente ti accoglie a braccia aperte, e' ospitale e cortese, curiosa, vuole farti vedere che nella loro terra la storia nel senso europeo del termine, come civilta' organizzata e unita, esiste da sempre, che sono un grande popolo come te. Ma non come i montenegrini, che sono solo brutali pastori di montagna e banditi, e nemmeno come gli albanesi, che sono entrati nella culla della loro civilta', il kosovo, e l'hanno distrutta per colpa della loro primitiva rozzezza e della loro incapacita' di vivere in pace con gli altri. E in montenegro vedrai sempre le stesse persone ospitali, magari con visi leggermente diversi, forse con corporature leggermente piu' massicce rispetto ai longilinei belgradesi, ti accoglieranno con sorriso alla loro njokada (parola che non mi e' proprio riuscito di tradurre...) di carnevale, riempiendoti il piatto di cibo e il bicchiere del loro ottimo vino ,e li sentirai raccomandarti di non andare oltre il confine albanese, perche' di la' c'e' brutta gente, meglio evitarli.
Mi e' venuta in mente una vecchia signora georgiana, che sicuramente ha vissuto la maggior parte della propria vita sotto la falce e martello, che ha iniziato a farsi il segno della croce e ha continuato per tutto il tempo che il treno destinato nel musulmano azerbaijan ha impiegato per oltrepassare il confine. Ma la stessa signora non si rivolgeva all'olivastro capotreno del baku express in russo chiamandolo tovarish fino a 15 anni fa?
In realta' il nostro mondo e' piccolo e limitato, e allargarne gli orizzonti richiede una fatica che in pochi sono disposti ad affrontare.
Un altro colpo di fortuna: sono arrivato a Kotor, la veneziana Cattaro, giusto in tempo per il carnevale. In piu' la boka kotorska, la baia che si incunea da qui fino all'adriatico oltreche' il piu' lungo fiordo al mondo (eh si, anch'io sono rimasto sorpreso scoprendo che i vichinghi non c'entrano...) e' stato immerso in un bellissimo sole primaverile per tutta la giornata. Tra l'altro, seguendo un suggerimento particolarmente appropriato, mi sono riempito lo stomaco con della deliziosa e freschissima aragosta, pagandola una miseria: ringrazio chi di dovere.
Nelle foto che mostrero' al ritorno mancheranno larghe parti di belgrado ed il castello di golubac lungo il danubio sommerso dalla neve: purtroppo mi hanno rubato lo zaino con le macchine fotografiche, tra l'altro l'unica volta che le avevo tutte 3 con me, e purtroppo le memory card in questione non erano ancora state copiate nel disco. Spero vi accontenterete di una sommaria descrizione, semmai provero' a farne uno schizzo a matita.
Giuse
8
Prima di tutto: a tutti i miei fans interessera' sapere che ho appena trovato una zenith (macchina fotografica russa) con annessa fantastica lente a 15 euro. grazie Tirana. Tra l'altro si e' aggiunta l'impagabile soddisfazione di effettuare contrattazione ed acquisto nel bagagliaio di una macchina. Inpagabile.
Il carnevale a Kotor ha mantenuto le attese, e da buona citta' veneziana la sfilata ha proposto maschere elaborate ed affascinanti a volonta'. Lascio il montenegro soddisfatto di quello che ho visto, e piuttosto deciso a farne prossimamente un luogo per le mie vacanze estive. Unica pecca e' l'attitudine di questa gente di lamentarsi troppo di qualunque cosa, dalle condizioni di vita alle scarse possibilita' offerte per fare il grande balzo, agli abitanti dei paesi vicini, che chissa' come mai, sono sempre gente di cui si dovrebbe far meglio a guardarsi, pronti a balzarti alla schiena appena possibile. Convinzione questa comune a tutti i popoli da me incontrati finora.
L'arrivo in albania, oltre a costituire uno shock culturale non indifferente, mi ha permesso di ricordare che in effetti c'e' gente che avrebbe ben piu' diritto di lamentarsi degli ex yugoslavi. Li' il tenore di vita e le condizioni economiche erano quasi ovunque ad un livello paragonabile con quello dell'europa occidentale, caso unico nel blocco comunista, e la guerra, pur con le sue evidenti cicatrici, non ha radicalmente cambiato il livello culturale ed il tenore di vita. Ma qui in Albania la miseria e' purtroppo sempre stata di casa, anche grazie a noi italiani, e 50 anni di comunismo non hanno potuto che peggiorare le cose.
La baraccopoli fuori Scutari non ha nulla da invidiare alle favelas sudamericane, e Tirana e' per larghi tratti sprovvista di strade asfaltate anche nel centro. E' quasi impossibile dare un'idea di quanto povera possa essere questa terra, nonostante la sua posizione geografica sia favorevole, nonostante l'incantevole bellezza della sua campagna e dei suoi monti senza menzionare il litorale adriatico, che come in Croazia, Montenegro e Grecia offre alcuni dei piu' bei paesaggi marini al mondo.
L'hotel dove ho passato la notte a Scutari si affaccia sulla piazza centrale, e' decisamente il migliore della citta', e ciononostante ho pagato una camera 4 euro, l'elettricita' d'inverno e' disponibile solo qualche ora verso sera, e nemmeno l'acqua esce tutta la giornata dal rubinetto. Posso solo immaginare cosa voglia dire vivere in una casa fuori dal centro.
Ciononostante sia Scutari sia Tirana sono citta' vitali, con traffico allucinante e mercati di strada sempre affollati di persone intente a negoziare, guardare e valutare qualsiasi cosa sia in vendita.
Dare un'occhiata qui aiuta decisamente a guardare sotto un'altra luce gli albanesi che decidono che tutto sommato 75 km (3 ore sul piu' lento gommone) non siano troppe per provare a vivere da noi una vita diversa. E qui non ho ancora sentito nessuna delle persone con cui ho parlato lamentarsi di quanto siano terribili le loro condizioni di vita.
Giuse
9
Le nuvole basse non permettono da qui di vedere la sponda albanese del lago di Ohrid, ma aggiungono fascino al monastero ortodosso che sorge a picco su una scogliera sulla riva, diviso dal resto della citta' macedone che porta il nome del lago da una bella foresta di conifere. La Macedonia qui e' un ritorno ad occidente, alle strade ben pavimentate, alle vie di negozi, ai caffe' di design. C'e' poco traffico, molte strade sono chiuse alle auto, e la citta' vecchia, con le case in legno con le verande dal sapore turco aggettanti ai primi piani, ha strade progettate ben prima dell'invenzione delle auto. L'intera sezione della costa macedone del lago, piu' la citta' vecchia con le sue decine di chiese ortodosse e' giustamente tutelata dall'Unesco. Quello che mi chiedo e' come e' possibile che l'altra costa di questo lago, che e' uno di tre piu' antichi al mondo insieme al Bajkal (Siberia) ed al Titikaka ( Peru'), non sia altrettanto meritevole di tutela, e quindi siano tollerati gli abusi edilizi che devastano il litorale albanese, e l'incredibile quantita' di spazzatura che ne punteggia il lungolago. Senza perdermi nella discussione storica tanto cara ai greci sulla legittimita' o meno di questa gente di usare il nome Macedonia, arrivando qui e' impossibile bnon constatare che questa gente ha una storia unitaria che dura da parecchi secoli, e di cui vanno giustamente fieri. Ripensarndo a come mi veniva presentata la Yugoslavia a scuola , come blocco omogeneo, con una capitale, altre importanti citta', ma senza entrare nei dettagli delle diverse popolazioni che la conponevano, mi viene da pensare che probabilmente in media conosciamo poco anche dei posti vicini a noi. L'Albania e' una succursale italiana. La segnaletica stradale e' fatta dalla stessa ditta che produce la nostra, usando la stessa grafica, per cui le strade principali interurbane sembrano esattamente le nostre statali. I nuovi edifici che vengono eretti un po' ovunque (e spesso senza piani regolatori) dentro e fuori le citta' assomigliano all'edilizia che fa bella mostra di se' nei paesi della provincia lungo tutta la pianura padana e nei lungomare dell'adriatico: finti marmi, linoleum, enormi vetrate, colori sgargianti. Trionfo del kitsch. E se non bastasse, ovunque svettano insegne italiane: di ditte nostrane che si sono stabilite qui per ragioni economiche; di prodotti italiani di qualunque tipo, che qui sono il simbolo dell'alta qualita' e del benessere; e anche semplici insegne come "non parcheggiare", "vietato l'accesso", "attenti al cane", "zona industriale" che qualche intraprendente si e' portato a casa al ritorno dal nostro belpaese. Considerando che l'Albania noi (anche se sotto lo zio Benito) l'abbiamo colonizzata, lasciando peraltro profonde tracce nella popolazione locale (ad esempio la dimestichezza con la lingua, che qui parlano tutti) e tracce decisamente meno profonde nello sviluppo economico, dovremmo forse smettere di pararci dietro "quello era il fascismo, noi italiani siamo brava gente" e aiutare a risolvere i casini che abbiamo lasciato in eredita' in giro a questa gente (per un altro esempio a proposito date un occhiata alle notizie riguardo al casino che sta succedendo in Somalia di questi giorni). Giuse
10
La storia yugoslava e' storia di fiumi. Il torbido Vardar, che scorre lento attraverso il centro di Skopje, segna anche il confine tra due mondi: quello moderno, caratterizzato dalle larghe piazze e dai larghi viali dell'urbanistica razionalista dei tempi di Tito, e quello rimasto ad un secolo fa, delle vie ciottolate e strette, delle mille botteghe artigiane lungo la strada e dei fatiscenti cortili interni agli edifici, del bazaar coperto dove puoi davvero trovare qualunque cosa, e dove la minoranza albanese che vive ed ha sempre vissuto da queste parti continua a far sentire la sua lingua ovunque, ed a rispondere al richiamo alla preghiera dei muezzin dalle moschee: "venite a pregare, venite a salvarvi".
Le due componenti, come in tutti i balcani ad esclusione della Sarajevo d'anteguerra, non si integrano se non per approfittare dei piu' ovvi vantaggi dell'altra parte, ad esempio i prezzi decisamente piu' bassi al mercato della ciarscia (citta' vecchia) albanese, o gli onnipresenti internet cafe' e negozi di marche occidentali della parte macedone.
L'alta collina che sovrasta il centro, cioe' la parte macedone, e' diventata un'altra delle "montagne della croce", che sono sorte da tutte le parti in Macedonia, ovvero alture sovrastate da (brutte) croci metalliche di gigantesche proporzioni che vengono illuminate nel cielo notturno, e permettono anche di avere una bella vista sulle vallate sottostanti grazie alla terrazza sul braccio orizzontale. Un'altra croce del genere l'ho vista a Mostar, sul colle dominante la parte croata della citta', e da dove la contraerea croata, in mancanza di bersagli in aria grazie alla no fly zone NATO, bersagliava gli edifici della sponda musulmana.
La campagna macedone e' ricca di colori, ma tra questi manca il verde scuro che siamo abituati a vedere da noi. La terra rigurgita argilla, e si colora di ocra e porpora, Gli alberi svettano con i loro tronchi scuri coperti anche in inverno di foglie di un rosso sanguigno che contrasta vivamente con gli arbusti di sottobosco ricoperti di muschi verde chiarissimo, e la vite, onnipresente in qualunque spiano, disegna lunghi filari facendo del terreno una scacchiera. Non e' difficile immaginarsi Alessandro Magno che dalle tende di un suo accampamento beve un bicchiere di Vranec (varieta' di vino eccellente quanto sconosciuta nell'Europa occidentale, che viene preparata solo con gli zuccheri naturali gia' presenti nella dolce uva locale) guardandosi attorno soddisfatto.
O forse non cosi' tanto soddisfatto, se potesse vedere adesso ilsuo popolo di valenti guerrieri e abili montanari, con cui ha conquistato uno degli imperi piu' grandi della storia: la prima impressione e' di avere a che fare con dei simpatici ed un po' apatici campagnoli, che non hanno nessuno dei caratteri estremi che, nel bene o nel male, contraddistinguono gli altri loro ex connazionali o gli albanesi.
Domani attraversero' l'ultima frontiera del mio viaggio, seguendo la valle della strumacka lungo i 40 km che ancora mi separano dalla Bulgaria.
Giuse
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Dalla frontiera con la Grecia e la Macedonia, delicato confine attraverso il quale passa una delle principali direttive dei traffici illeciti di cose e persone diretto all'Europa occidentale, inizia la parte bulgara della nuova strada che l'Unione Europea ha fortemente voluto per collegare degnamente via terra la Grecia con il resto dell'unione, o almeno cosi' sara' dal prossimo gennaio quando qui iniziera' a sventolare bandiera a 12 stelle.
Tagliando dritto verso nord le propaggini orientali dei balcani, sfiora a meta' del percorso uno dei piu' bei monasteri al mondo, incastonato nella stupenda valle del Rila, da cui prende il nome. Il cortile interno, dalla leggerezza di una casa veneziana con i ballatoi decorati da arcate di legno, fa da cornice ad una chiesa ortodossa decorata da multicolori icone, e sovrastata da quattro cupole d'oro e piombo. Con le montagne coperte da fitte foreste di abeti a fare da cornice, questo e' sicuramente uno dei posti piu' belli che mi sia capitato di vedere.
L'autobus diretto a Sofia si impanna due volte, a causa della neve che entra nel motore bloccandolo. Anche all'arrivo fiocchi grossi come palline da ping pong ti si attaccano addosso, ricoprendo tutto e tutti di bianco. Ma al risveglio un sole brillante saluta il mio ultimo giorno di viaggio, illuminando la citta', ancora bianca e scintillante. E' piacevole aggirarsi per i larghi viali del centro, ed imbattersi in monumentali chiese che ti fanno ricordare che la madre russia e' vicina, in mercati di strada dove oggi il prodotto piu' in voga sono pezzi di stoffa bianchi e rossi in qualunque forma, che tutti i locali esibiscono addosso in vista delle celebrazioni di dopodomani per la festa nazionale. Stasera la mia ultima notte sara' nei saloni dell'aeroporto, aspettando il check in, che qualche sadico sicuramente afflitto da nostalgia dei tempi di Dimitrov e Zhivkov e della stella rossa sugli edifici ha fissato alle 4 del mattino.
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