Il treno, che secondo i piani sarebbe dovuto essere quello del giorno prima, attraversa la frontiera appena dopo il tramonto, accompagnato dalla musica classica proveniente dagli altoparlanti sui binari. L'eredita' di anni ormai passati, quando le steppe mongole ed il Gobi erano il cuscinetto che manteneva la frizione sinosovietica appena sotto il livello critico, fa si che il nostro treno debba entrare in un enorme capannone, dove viene sollevato, e dove vengono sostituite le ruote con quelle piu' larghe del passo russo. Entrambi i gruppi di guardie di frontiera sono cortesi, ti accolgono con sorrisi e gentilezza, e questo e' gia' un gradito arrivederci/benvenuto per chiunque abbia attraversato confini asiatici.
Facciamo subito conoscenza con un inatteso visitatore proeniente dal Gobi: la polvere del deserto che tanto affligge la cina orientale aspetta solo il calar delle tenebre per invitarsi in qualunque angolo del vagone, creando un surreale effetto nebbia alla luce delle lampade elettriche dei corridoi.
Poi, col nuovo giorno, la sterminata steppa mongola, punellata solo da occasionali ger (le tende dei pastori nomadi) e mandrie di cammelli, pecore, bovini e cavalli, si apre sotto l'immenso cielo azzurro davanti agli occhi rapiti di chiunque si sporga dal finestrino per respirare un po' d'aria priva di terra.
I mongoli sono belli, in special modo gli uomini hanno lineamenti perfetti, come disegnati da linee, occhi come fessure, vispi e giovani, labbra piccole e nasi poco marcati, che donano all'espressione una grazia ed una dignita' incredibile. E cosi' le donne, che agli occhi occidentali soffrono solo per la loro robusta (ma mai grassa) corporatura, ma che hanno visi fieri e dolci al contempo.
Scoprire Ulan Bataar vuol dire entrare in un minuscolo paese, che sembra continuamente sul punto di perdere la lotta con la campagna circostante, cosi' carica di significato ed identita' per una popolazione prevalentemente nomade nonostante tutto. Ma la sorpresa viene notando come questo villaggio sia incredibilmente cosmopolita, come la gente parli correntemente o quasi inglese e russo oltre alla loro fascinosa ed incomprensibile lingua mongola, e come la citta' sia riuscita a sopravvivere all'assalto di qualunque ideologia ed influenza esterna, dal comunismo ed i suoi obrobri architettonici alla modernizzazione sfrenata che colpisce qualunque paese si sia aperto al libero e selvaggio mercato globale.
Dopo aver vagato per la curiosa Ulaanbataar per un paio di giorni, gustandone il mix di atmosfere postsovietiche e sciamanesimo nomade, rimanendo impressionato di fronte alle armature dell'esercito del gran Khan e davanti agli scheletri completi dei dinosauri del gobi, dopo aver riempito la pancia di montone con i taglierini, ravioli al vapore ripieni di montone, gnocchetti di farina e montone nel te', e conseguentemente dopo aver ormai acquisito addosso lo stesso odore delle banconote, dei sottopassi, di qualunque spazio chiuso, dei vestiti della gente, di un buon 50% delle strade (indovina un po', proprio l'odore dell'amato animale...), dopo tutto cio' insomma, e' venuto il momento di avviarmi alla scoperta della campagna del paese, che nel caso specifico rappresenta l'intera superficie dello stato ad esclusione del centro di Ulaanbataar, ma comprese le periferie.
Avendo avuto sentore della pochezza delle strade locali, che sommano la bellezza di 200km circa di asfalto su un paese lungo 2500 e largo 1800, ho puntato la sveglia di buon'ora per saltar su al primo furgoncino. Il problema e' che non ho fatto i conti con il concetto mongolo di guesthouse: la mia splendida cameretta in affitto, linda, con doccia calda colazione e cucina al folle costo di 3 euro/notte, e' parte della casa dell'affittacamere, che nella fattispecie e' un ragazzo di 23 anni, simpatico, con il classico faccione mongolo che piu' che genghis khan ricorda charlie brown. Impossibile non simpatizzare da subito, davanti a due birre e l'NBA via satellite. E cosi' difatti e' stato gia' dalla prima sera: peccato pero' che proprio ieri notte, verso mezzanotte, mentre ero ormai accoccolato nel letto tra le affettuose braccia di morfeo, qusto figuro entra nella mia stanza, accendendo la luce ed iniziando a chiamare josefino (che e' la miglior pronuncia per il mio nome ottenuta in mezz'ora di prove), questa volta si' con una voce che mostra chiaramente i geni in comune con il grande condottiero.
Non credo che sia mai pr un attimo passato per la sua testa che ad un europeo essere svegliato nel mezzo della notte potrebbe sembrare quantomeno bizzarro, e d'altronde l'occasione non permetteva ripensamenti: con lui c'erano infatti la sua ragazza, due amici ed un'intera bottiglia di birra non filtrata da 2,5 litri! Come avrebbe mai potuto dormire il poveretto sapendo di non aver reso partecipe di un cosi' importante momento il suo nuovo amico straniero!
La serata e' quindi inaspettatamente (per me) ripresa, vivacizzata da una corsa di cavalli con le rotule di pecora, forse il gioco piu' amato dai mongoli dopo la lotta tra ciccioni, e certamente il non-plus-ultra nella categoria "giochi da tavolo non violenti".
Fortunatamente, il tempismo mongolo, che ha filo da torcere per quelli greco e messicano, mi ha permesso con tutta comodita' di svegiarmi 2 ore dopo e comunque prendere senza affanno il minibus in questione. La destinazione e' la "roccia madre", una curiosa formazione rocciosa che sembra in effetti una figura umana (mongola senza dubbio, data la stazza), e che per questo da secoli immemori e' meta di pellegrinaggio, in barba alla versione ufficiale che vuole della Mongolia un paese laico a maggioranza buddhista. Questa roccia, che si trova nel mezzo del nulla a un po' di piu' di 100 km a sud della capitale, ha resistito alla dinamite ed ai trattori sovietici, decisi ad estirparla in quanto simbolo dell'antico mondo feudale, nemico giurato del comunismo: questo dovrebbe potervi dare un'idea sopratutto della corporatura delle madri mongole, di cui tra l'altro la nostra roccia veste gli abiti.
Il pellegrinaggio e' toccante per la carica emotiva che la gente porta dentro di se', assolutamente certa da sempre che non ci sia niente di piu' certo e concreto delle credenze radicate nelle generazioni della propria storia.
E cosi' mi ritrovo di nuovo testimone dell'Asia piu' vera, atavica, dotata di una carica vitale primitiva che ancora scorre travolgente, e contro la quale nessuna dottrina importata centrata su doveri e proibizioni puo' opporsi: che sia l'islam a besh barmaq in Azerbaijan, o il buddhismo qui alla roccia madre in Mongolia, o il cattolicesimo nelle Filippine, o l'ortodossia russa in Buriazia, l'Asia e' e rimane scaimana, mistica, assolutamente originale e tradizionalista nei propri miti. E forse e' proprio questa la sua forza, la base del suo fascino, e la lezione che puo' esportare.
Le antiche rocce, ormai rese come enormi ciottoli marini dai millenni di erosione, spuntano da pendii collinari che ricordano le alpi nostrane, e vengono incorniciate dall'oro brillante dei pini e delle betulle in tenuta autunnale. Qua e la' spuntano le ger dei nomadi, bianche con le loro porte in legno finemente decorate. All'improvviso due cavalieri, con i loro sventolanti mantelli invernali ed i cappelli tradizionali a punta, sbucano a tutta velocita' da dietro un colle, lanciandosi con furia da togliere il respiro solo a guardarli in una gara di velocita'. Poi, dalle nuvole che hanno macchiato l'azzurro brillante del cielo mongolo, si sprigiona un'intera gamma di colori, dal rosso incendio a tutte le tonalita' dell'arancio e del turchese, e mi fermo accanto a due giovani mongoli silenziosi ed accanto ad un ovoo (le piramidi di pietre e bandiere) di preghiera, ad ammirare la potenza della natura allo stato piu' selvaggio.
Questa e' la campagna mongola, una terra che ti strappa il cuore dal petto e lo sparge su se stessa, dove certamente restera' a lungo.
E questo e' forse l'ultimo baluardo di uno stile di vita ancestrale, che non chiede strade o facilita' di comunicazione, che non chiede beni, ma che si inorgoglisce della ferocia della natura piu' selvaggia, che fa un vanto del fatto di poter ricompensare i suoi discepoli con la possibilta' ci raggiungere luoghi dove ancora mai nessun altro ha messo piede, ma che in cambio chiede di convivere con le tempeste di polvere, con 40 gradi sotto zero ce in meno di un mese diventano 40 sopra, con la necessita' di convivere continuamente con la fatica, indipendentemente da quanto ci si adoperi per ridurla attraverso la tecnologia: qui un buon fuoristrada non e' meno stancante o piu' comodo di un cavallo, o di spostarsi a piedi.
Continuera' ad essere cosi? Se dovesse cambiare, quello che e' certo e' che l'Asia ed in generale l'intera umanita' perderebbe il piu' significativo baluardo delle proprie origini e di quel mondo dove e' ancora la naturaa regolare la vita, e non viceversa.
Jan 28, 2007
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